BOLOGNA – I Babilonia (babiloniateatri.it; al secolo Enrico Castellani e Valeria Raimondi) ci hanno abituato negli ultimi anni a varie trasformazioni, mutazioni. Profondi cambiamenti di stile e di senso. Nati e usciti alla ribalta con quel “Made in Italy” che raccontava il Bel Paese con il grandangolo posizionato sul Veneto (in molti si ricordano la bestemmia contenuta), su quel Nord Est gretto, dolente e sofferente, con la loro non recitazione a mitraglia come pistola puntata dritta in faccia al pubblico, senza paure senza remore senza pudori, battaglieri e barricaderi, con quella modulazione nel dire sferzante, senza intonazione, con quell’andamento armonico hip hop e punteggiatura punk di rottura degli schemi teatrali.

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Recentemente li abbiamo visti cercare una nuova collocazione, un diverso percorso, una nuova maniera per esplicitare il loro teatro, la loro poetica, le loro enfasi, le loro tematiche. Lentamente si sono espulsi dal palcoscenico, passando da Lolita (una bimba in scena) e Jesus (solo Valeria), non perfettamente riusciti, approdando all’emozionante Pinocchio, dove Enrico rimaneva al mixer, solo voce che imboccava, spingeva, aiutava tre non attori usciti dal coma a raccontare la loro vita prima e dopo l’incidente. Ed era un modo di porsi che apriva altre finestre e riflessioni, sulla perdita della collera e della rabbia, un nuovo modo di vedere l’intorno, di starci dentro, di cerca re il proprio spazio nel mondo che non fosse la sola distruzione e abbattimento dell’esistente. Il loro nuovo lavoro, coproduzione Ert e Stabile del Veneto, David è morto, pare essere un prolungamento, una continuazione di Jesus, almeno sulla carta, con un capro espiatorio inforcato, esposto al sacrificio per salvare il prossimo. Ma se il plot è velocemente sintetizzabile in un acido e distrutto sistema relazionale generazionale tra genitori e figli che porta i secondi, fratello e sorella, entrambi al suicidio uno dopo l’altro, la messinscena è straniante con due narrazioni che si intersecano e interscambiano.

La materia scivolosa, sdrucciolevole e provocatoria di David è morto, appunto il suicidio giovanile, viene esposto come un fatto di cronaca giornalistica. E mentre David (il giovane ma già pronto Filippo Quezel che sembra recitare come un emulo di Enrico Castellani con la stessa impostazione scandita, razionale di parole senza enfasi) ci spiega i perché, il prima che lo ha portato al gesto estremo, con distacco e lontananza come se quell’azione non lo riguardasse, si ha sempre più la sensazione e la percezione che l’accaduto arrivi da qualche nostra provincia, in quelle famiglie “per bene” dove il disagio non lo puoi monetizzare con iban e conto corrente. E vai indietro nella memoria per scavare dentro di te alla ricerca di quel trafiletto, di quel pezzo di cronaca nera che evidentemente ti sei lasciato sfuggire nella bulimia della tv che eccede e si autoalimenta di notizie macabre e truculente come questa.

Dentro di te non trovi nessun appiglio mnemonico perché il fatto non sussiste, non è mai accaduto, almeno in questi termini, anche se l’andamento è da indagine poliziesca, il cammino all’interno dei vari passaggi hanno il sapore della ricostruzione da homicide case. Se David e la sorella Iris (Chiara Bersani su una mini jeep elettrica) entrano dentro i dettagli ansiogeni e sanguinolenti draculeschi (uno splatter anche troppo forzato e sottolineato) da carta stampata scandalistica (viene in mente l’irriducibile ed eterno “Cronaca Vera”), il padre e la madre (i generosi Alessio Piazza ed Emanuela Villagrossi, all’unisono, in contemporanea, quasi in una coreografia specchiata di voci) recitano un duetto da pseudo amore, incastonati in un grande cuore rosso acceso, da spot e melodramma adolescenziale di lucchetti mocciani, dentro il quale, come recinto e prigione di dipendenza, salgono con una scala che ricorda molto Giulietta e Romeo al balcone, mielosi al limite del patologico in netto contrasto con gli altri elementi “arrabbiati”.

Da una parte la cronaca, il docu-theatre, dall’altra il teatro, la fiction, fino all’arrivo, prepotente, arrogante, destabilizzante di quella che fino ad allora era soltanto una voce narrante fuori campo: il rocker Alex, duro con tanto di stivali e giubbotto di pelle a salvaguardare il personaggio (Emiliano Brioschi incisivo) che come Caronte si introduce nelle pieghe, ci spalanca aperture, ci fa entrare nel seminterrato del detto precedentemente, ci fa accomodare nelle ombre e nel buio della vicenda. I Placebo, i Pink Floyd e i Blur tamponano quest’emorragia di sentimenti e anaffettività, questa “normalità” ipocrita in mezzo a quest’abisso di croci (tema ricorrente la morte nei Babilonia) che spuntano come funghi dopo un’abbondante pioggia innaffiati dal sangue giovane. Ed ecco il terzo livello, il terzo strato del pandispagna, del millefoglie di David è morto: il cantante maudit Alex prende ispirazione dalla storia per un suo componimento. Rimane il vuoto, l’eco della mancanza, l’assurdo dell’esistere.

Rimaniamo altresì spiazzati, amleticamente dubbiosi e interrogativi su questa forma espressiva che rimane sempre sospesa e a metà strada tra il dire e il far capire, tra la verità e la finzione a più piani dove non è infrequente perdere la bussola, l’ancora di salvataggio e la rotta giusta. Puoi pensare che sia teatro verità, puoi pensare che sia teatro canzone, rimaniamo affezionati ai Babilonia quando il duo staziona in scena; quella è la loro forza, il germe propulsivo, anche se è da apprezzare il continuo tentativo di mettersi in discussione, di cercare nuove strade sia interpretative che drammaturgiche, di mischiare le carte, di prendersi la libertà del confronto, dello scontro, della riflessione.

 

 

Visto all’Arena del Sole, Bologna, il 16 febbraio 2016.

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