La Kop ha vinto la sua battaglia contro il caro prezzi, la società ha fatto marcia indietro e ha annunciato il blocco agli aumenti per la prossima stagione, ma la guerra dei tifosi per mantenere il calcio uno spettacolo accessibile alle classi popolari è ancora lunga. Tutto comincia settimana scorsa, il Liverpool annuncia i prezzi per il 2016/17 e i meno cari sono 1029 sterline per l’abbonamento e 77 (invece dei 59 odierni) per la partita. L’associazione Spirit of Shankly – che prende il nome del mitico allenatore che costruì il grande Liverpool al grido di “Il calcio è lo sport dei lavoratori, un divertimento per i lavoratori” – decide allora per una protesta clamorosa: al 77° minuto della partita col Sunderland la Kop esce dallo stadio. La società fa un passo indietro e blocca i prezzi. Tutto bene quello che finisce bene? In realtà no. Perché il problema dell’aumento dei biglietti è diffuso in tutto il continente, e sulla scia della trasformazione radicale che sta investendo il calcio, sta trasformando i tifosi in clienti, sacrificando sull’altare delle televisioni l’atmosfera dello stadio e i valori di comunità delle tifoserie.

Sgomberiamo subito il campo da un equivoco: non esistono bei tempi passati in cui il calcio era uno sport da prezzi popolari. Come ha scritto anche di recente Simon Kuper sul Financial Times, il calcio nasce per un pubblico borghese e le prime proteste contro il caro-biglietti risalgono addirittura a fine Ottocento. Negli anni, con la costruzione dei settori popolari prima e per motivi di ordine pubblico poi – da entrambi le parti: l’ingresso della militanza politica nelle curve e l’uso del pallone come narcotico sociale – si decide di destinare parte degli impianti alle classi popolari. Nasce così l’atmosfera di festa che diventa marchio di fabbrica del pallone rispetto ad altri sport. Ciò nonostante, o forse proprio per questo, negli ultimi anni il prezzo dei biglietti è cresciuto in maniera vertiginosa. Un recente studio della Bbc racconta in Premier di una crescita del 13% negli ultimi quattro anni, paragonato a un aumento del costo della vita del 6,8%. Andare allo stadio oggi costa decisamente troppo, dovunque.

Diamo uno sguardo nei principali campionati europei. A prima vista sembrerebbe la Premier League il campionato più caro. Nella stagione 2015/16 il biglietto più economico per Chelsea (66 euro) o Manchester City (53) supera di gran lunga quelli per Real Madrid (33), PSG (19) e Bayern Monaco (14). Addirittura, l’abbonamento meno caro dell’intero calcio professionistico britannico, il misconosciuto Annan Athletic della seconda divisione scozzese, costa 152 euro, molto più che un abbonamento al Camp Nou per il Barcellona, dove il meno caro costa 94. Un dato paradigmatico. Il tutto mentre le società britanniche incassano sempre di più dai diritti televisivi: la sola Premier nei prossimi 3 anni si divide infatti qualcosa come 10,2 miliardi di euro. Come è possibile che con l’aumento degli introiti per i club debba crescere anche il costo dei biglietti? E’ evidente che alla base c’è una scelta politica, eliminare la working class dagli stadi. Settimana prossima la Football Supporter Federation britannica si riunirà per organizzare una protesta collettiva sul modello della Kop in tutti gli stadi.

Ma il problema non è solo inglese. In Spagna anche si pensa a proteste collettive. In Germania, dove pochi anni fa c’era stata una battaglia vinta per mantenere i posti in piedi nelle curve, e dove martedì i tifosi del Borussia Dortmund in segno di protesta contro il caro-biglietti hanno interrotto la partita di Coppa lanciando in campo delle palline da tennis, la Football Supporters Europe ha invece indetto un’assemblea dei tifosi di tutto il continente per organizzarsi insieme. E in Italia? Da parte delle tifoserie tutto tace, mentre sul aumento del costo dei biglietti ci sarebbe qualcosa da dire. Per i biglietti meno costosi, tutto sommato si è nella media: per vedere la Juventus ce la si può cavare con 24 euro, il Milan 19. A uno sguardo più approfondito però, si scopre che tra gli abbonamenti stagionali superlusso i più cari sono proprio in Italia. In testa a questa speciale classifica ci sono il Milan (il più caro in assoluto, 4200 euro) seguito dal Palermo (3800) di poco avanti a Lazio e Bologna. In pratica, può costare di più andare al Renzo Barbera o al Dall’Ara a vedere Gilardino e Destro che non al Bernabeu per il Real (abbonamento più costoso a 1850 euro) o a Stamford Bridge per il Chelsea (1600 euro).

Questo nonostante gli stadi italiani, vecchi e fatiscenti, e mai rinnovati dopo i fasti tangentizi di Italia ’90, siano notoriamente i meno ospitali in assoluto. E rimangono vuoti. Se in Germania o Inghilterra gli impianti si riempiono intorno al 95% della capienza, e in Spagna poco meno, in Italia la media spettatori è tristemente sotto il 50%. Addirittura, si è passati da una media di 30mila spettatori in Serie A nella stagione 1995/96, al crollo verticale nella stagione 2015/16 con una media di 22mila spettori. Vent’anni fa un biglietto per una partita di Serie A costava in media 30mila lire, e per i settori popolari te la cavavi con meno di 10, oggi in Italia costa in media 68 euro, addirittura più della Premier League e dei suoi accoglienti stadi (media 54 euro). Inoltre gli stadi italiani non rendono, la Serie A sembra incapace di progredire nel marketing e nel commerciale come nel resto d’Europa, e preferire, per ragioni politiche, rimanere prigioniera dei diritti tv che in Italia incidono per il 60% sul fatturato mentre altrove non superano il 30%.

Uscendo dalle macerie del calcio italiano, e tornando al pallone europeo, ecco altri dati sull’aumento del costo dei biglietti. Sempre nella stagione 1995/96 presa in esame prima, per l’Arsenal bastavano 11 sterline, oggi non ne spendi meno di 64. Sarà colpa del nuovo stadio, ok, perché allora il Manchester City è passato da 11 a 56, visto che lo stadio è rimasto uguale a vent’anni fa? Perché la risposta del caro biglietti è appunto politica. Con quello che pagano le televisioni rispetto a vent’anni fa gli stadi potrebbero addirittura essere gratuiti. Non lo sono per via della trasformazione dell’industria culturale del pallone: dalle proprietà che dal capitalismo industriale sono passate a giocare sui tavoli della finanza globale, ai Mondiali come eventi blindati militarmente e giocati in luoghi sempre più inaccessibili (vedi Qatar). Nel divenire di questa trasformazione, si cerca di eliminare ogni possibile devianza che provenga dal basso, riducendo il tifo a innocua fruizione salottiera di prodotto infarcito di spot pubblicitari. Con tutte le conseguenze sociali della sparizione dei luoghi di incontro pubblico a favore dell’alienazione casalinga. Quello di cui non si è accorta la politica, lo hanno capito i tifosi. Per questo le loro battaglie sono mai come oggi necessarie.

Twitter @ellepuntopi

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