L’intervento occidentale in Libia è “un imperativo” al quale non possiamo sottrarci se vogliamo porre rimedio alla campagna militare del 2011. Il rischio è quello di “lasciar marcire questo Paese e una parte dell’Africa”. Dal futuro della Libia e del Nord Africa, fino al rapporto tra Occidente e mondo arabo che trova terreno di scontro nella questione migranti, lo scrittore Yasmina Khadra (vero nome Mohammed Moulessehoul), protagonista della 22esima edizione del “Festival Dedica” di Pordenone, parla a IlFattoQuotidiano.it della necessità di ristabilire un legame stretto tra Oriente e Occidente che devono tornare a guardarsi negli occhi “con un sentimento di solidarietà umana”.

L’attualità ci parla di un possibile intervento in Libia da parte di una coalizione occidentale a guida italiana. Qual è la sua opinione in merito?
“Ritengo che sia un imperativo. L’Occidente non sarebbe mai dovuto intervenire nel 2011, non in quel modo. Ma visto che lo ha fatto, è arrivato il momento di salvare il salvabile. Non possiamo lasciar marcire la Libia e parte dell’Africa”.

L’alternativa sarebbe insistere con i tentativi di dialogo tra le decine di gruppi e tribù che caratterizzano il Paese. È un’utopia?
“Tutto è possibile. Intendo dire che tutto si può fare se si pensa con lucidità a una soluzione che guardi concretamente al futuro e con un percorso che si ha la voglia e la possibilità di perseguire. Un punto d’incontro lo si può trovare, credo, ma solo se si riesce a guardare a obiettivi a lungo termine. Ma lasciare il Paese e chi lo abita in queste condizioni non è possibile, quindi è necessario un intervento. E non intendo semplici raid aerei: non si può parlare di vero intervento senza truppe di terra”.

E l’Italia che ruolo può giocare visti i rapporti con il vecchio regime, gli interessi in campo e il fatto che sarebbe a capo dell’operazione?
“L’Italia non deve diventare l’unica promotrice di questo intervento. Il fondamentalismo rappresenta una minaccia per tutti e per combatterlo serve una coalizione internazionale”.

La Libia confina con l’Algeria, suo Paese d’origine. Crede che il Paese possa essere contaminato?
“L’Algeria è uno di quei Paesi che ha dato prova della propria capacità di contrastare l’islamismo. Abbiamo passato dieci anni nell’indifferenza dell’Occidente, ma nonostante questo siamo il solo Paese dell’area che è riuscito a combattere e sconfiggere il terrorismo. Se i gruppi estremisti tentassero di prendersi parte del Paese, questo diventerebbe la loro tomba. La popolazione è esasperata, ricorda le sofferenze recenti e, per questo, è consapevole del rischio che correrebbe. L’estremismo per gli algerini è come un’orticaria sulla pelle: se la stuzzichi troppo, la reazione dell’individuo sarà violenta”.

Lei ha servito l’esercito algerino contro le fazioni islamiste in un periodo in cui il Paese era instabile, con colpi di Stato che hanno spesso portato all’ascesa di regimi antidemocratici. Estremismo e dittature rappresentano troppo spesso le uniche due alternative per molti Paesi arabi. Esiste una terza via?
“Devo dirglielo, trovo che l’Occidente abbia una visione negativa che non riesce a comprendere a pieno il mondo arabo. Quando combattevo non lo facevo per una dittatura, ma per un Paese che stava affrontando il proprio processo di democratizzazione. Il vero problema era rappresentato dal vuoto politico che questo processo stava creando. Gli islamisti lo avevano capito e hanno sfruttato questa vacatio. Abbiamo combattuto contro estremisti che volevano fermare il progresso, che erano riusciti ad addomesticare una parte di popolazione e rigettarla di secoli indietro nel tempo. Io nego fermamente che dittatura ed estremismo rappresentino le uniche due alternative per il mondo arabo. In alcuni Paesi è già iniziato un processo di democratizzazione che deve essere sostenuto combattendo l’ignoranza nella quale affonda le radici l’estremismo pseudo-religioso”.

Come si può dare il via a un processo del genere?
“Il lavoro vero deve essere fatto all’interno dei singoli Paesi, tra le persone. Prima di tutto deve essere riconosciuta l’importanza della donna all’interno della società. Dobbiamo comprendere lo slancio che le donne possono dare alla Nazione. Inoltre, dobbiamo valorizzare la cultura. In Algeria, ad esempio, questa si riduce a folklore: non apprezziamo l’arte, la musica, la pittura e il Paese sprofonda nella noia, con i giovani sempre più frustrati. Questo può creare terreno fertile per gli estremismi”.

Nei suoi libri lei parla spesso della necessità di un rapporto sempre più stretto tra Oriente e Occidente. Che idea si è fatto di questo rapporto riguardo alla questione dei migranti? E come interpreta l’atteggiamento di chiusura di alcuni Paesi europei?
“Ѐ complicato dare una risposta. È dagli anni ’70-’80 che si discute della nascita di un nuovo ordine mondiale, non è che lo stiamo già vedendo? Io, però, sono solo uno scrittore. So solo che ci dovremmo tutti impegnare a fermare e non alimentare le guerre in giro per il mondo. È impensabile che l’Europa possa farsi carico di tutte le persone colpite dai conflitti nei loro Paesi, quindi è necessario cercare di rendere questi Stati vivibili per la propria gente cercando di ristabilire e mantenere la pace. Chiudere la porta in faccia ai disperati non è un gesto di umanità. La solidarietà collettiva verso le popolazioni martoriate dalla guerra sarebbe la prima pietra sulla quale costruire la pace. L’egoismo è un istinto animale, la solidarietà è umana”.

Se potesse dare un consiglio all’Occidente e uno al mondo arabo, quali sarebbero?
“Ho un consiglio che vale per entrambi: sbarazzatevi dei politici. Sono come dei commessi viaggiatori, agiscono esclusivamente nell’interesse economico. Sono le popolazioni che hanno il potere di ristabilire la pace tra loro, non i politici. Ma poi, che cos’è l’Occidente e cos’è l’Oriente? Per ogni Oriente esiste un Occidente e viceversa. Questo vuol dire che non siamo così diversi”.

Twitter: @Gianni Rosini

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