Zarzis-Borri

Scattata a Zarzis a febbraio

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Cammini sulla sabbia, lungo il mare di Zarzis, e trovi scarpe.
Scarpe, e relitti di barca.
Mohsen Lihidheb, il postino, ha percorso questa costa in bicicletta per vent’anni. Su, fino a Djerba, e ritorno, ogni giorno. 150 chilometri. Ora la sua casa è il Museo della Memoria del Mare. Scaffali di spazzole, accendini, fotografie, documenti. Diplomi. Una cassetta di bottiglie, di bottiglie con dentro messaggi, torce, lampade di segnalazione, confezioni di cioccolato, di merendine, di medicine, banconote, banconote della Libia, del Senegal, del Mali, in un angolo, scoloriti, un cumulo di giubbotti salvagente. E poi scarpe. Scarpe, decine e decine di scarpe, la suola sottile, consumata, tenuta insieme con lo spago.
Orsacchiotti rancidi di sale.
Non c’è una targhetta, una data, una descrizione, non c’è niente – e d’altra parte, cosa si potrebbe scriverci? Sono vite di cui non è rimasto neppure un numero.
Mohsen ti dice solo: le ossa le ho sepolte.

Zarzis non è uno dei nomi sui giornali di questi giorni. Lesbos, Calais, Idoumeni. Keleti. I punti di approdo cambiano di settimana in settimana, a seconda delle rotte, e quindi delle stagioni, delle guerre, degli scafisti. Delle motovedette della marina e dei rotoli di filo spinato. Abbiamo letto di tutto, in questi mesi, mille storie, in Europa abbiamo tirato fuori il peggio e il meglio di noi stessi: i danesi che confiscano ai profughi la collanina d’oro come contributo alle spese di accoglienza e gli austriaci che vanno a prenderli in auto a Budapest, le molestie della notte di Capodanno, a Colonia, subito imputate agli arabi e i greci che nelle mense di Atene dividono con i nuovi arrivati quel poco che hanno. E anche all’interno di uno stesso paese: abbiamo visto i norvegesi lasciare i siriani sotto un metro di neve, al confine con la Russia, e poi però spendere per loro più di tutti al mondo, abbiamo visto l’Italia di Pierfrancesco Majorino, la Milano che ha ospitato tutti come una famiglia, e l’Italia delle intercettazioni di Roma, in cui i rifugiati venivano definiti più redditizi del traffico di droga. La Francia che monta tende a Calais, la Francia che brucia tende a Calais.

E abbiamo visto foto bellissime, ogni volta. Potenti. Foto di quelle che ti inchiodano, che ti sembra di stare lì. Che non ci dormi. Centinaia e centinaia di foto: tra cui quelle di Francesco Zizola premiate pochi giorni fa al World Press Photo – le foto scattate sulla barca di Medici senza frontiere, le foto che mi hanno colpito di più: perché i profughi, a bordo, sono tutti neri.
Non sono siriani. Non sono iracheni.
Sono neri.
E ti ricordano che questa non è un’emergenza.
Non è una contingenza.
Al di là dell’emozione del momento: ti ricordano cosa davvero stai guardando.
Cosa davvero sta succedendo.

A Zarzis tutti ti dicono: italiana? Come Gabriele Del Grande? Perché Gabriele Del Grande, su questo mare, è stato di casa: da quando da solo, oltre dieci anni fa, ha iniziato a raccontarci che a centinaia, da qui, a migliaia tentavano la traversata verso Lampedusa. Verso l’Europa. E morivano. Senza un nome, senza un numero. Ora tutti guardano la foto di Alan Kurdi riverso sulla spiaggia e pensano alla Siria. Pensano che al fondo, sia questione di fermare la guerra in Siria. Ma io sono nata nell’Italia del sud: e i cadaveri in spiaggia li ricordo da sempre. Perché poi uno dice: fuggono dalla guerra, fuggono dalla povertà. Mathilde Auvillain e Stefano Liberti hanno raccontato i clandestini africani sfruttati come schiavi nei campi di pomodoro della Campania. Vengono dal Ghana: un paese in cui l’economia, basata sull’agricoltura, e in particolare sul pomodoro, è al collasso – al collasso a causa del pomodoro italiano, che grazie ai sussidi dell’Unione Europea ha prezzi imbattibili. In Ghana vengono da noi per fuggire da noi.

Ci concentriamo sui siriani, sugli iracheni, gli afghani, al più, e rispediamo indietro tutti gli altri. I kosovari. Gli eritrei. I tunisini. In realtà chi fugge da una guerra, in senso letterale, chi fugge dai bombardamenti si rifugia oltre frontiera – o a volte, come in Yemen, a Gaza, non fugge affatto, perché la frontiera è chiusa. La maggioranza dei profughi non fugge dalla guerra, ma da tutto il resto, perché questa, appunto, non è un’emergenza, per niente: questo è un esodo strutturale, effetto dell’evoluzione del capitalismo. Che non è più, come ai tempi di Keynes, un sistema inclusivo, basato sulla produzione materiale, sul consumo, e quindi sulla domanda della classe media: adesso il ruolo dominante non è dell’economia ma della finanza, non della produzione ma della speculazione. E non c’è più spazio per tutti. A crescere non è il benessere, ma la disuguaglianza. Tra il 2000 e il 2007, prima della crisi, scrive Saskia Sassen, il reddito medio degli Stati Uniti è aumentato di 1460 dollari: ma sono andati tutti al 10 percento più ricco della popolazione. Per l’altro 90 percento, il reddito medio in realtà è diminuito.

Ma a Zarzis i giornalisti vengono e ripartono, dice Mohsen. La notizia, ormai, è altrove. Lesbos, Calais. Idoumeni. Promettono che scriveranno, faranno, attireranno attenzione: ma poi, dice, spariscono.

A Zarzis tornano solo le scarpe.

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