Il conflitto iniziato 11 mesi fa nello Yemen, con l’intervento della coalizione a guida saudita contro il gruppo armato huthi e le milizie fedeli all’ex presidente Saleh, ha causato quasi 3000 morti tra la popolazione civile, tra cui 700 bambini. I feriti sono oltre 5600 e gli sfollati fino a due milioni e mezzo.

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La coalizione guidata dall’Arabia Saudita ha portato a termine decine di attacchi indiscriminati nelle province di Sana’a, Sa’da, Hajjah, Ta’iz e Lahj, in cui sono morti centinaia di civili, in larga parte donne e bambini. Sono stati colpiti centri abitati, ospedali, scuole, mercati e moschee. Per il diritto internazionale si tratta di crimini di guerra.

Dalle ricerche di Amnesty International è emerso che la coalizione ha anche usato quattro tipi di bombe a grappolo, tra cui modelli prodotti negli Usa e in Brasile, in almeno cinque attacchi in tre province dello Yemen. L’ultimo attacco documentato risale al 6 gennaio, quando a Sana’a un ragazzo di 16 anni è stato ucciso e altri sei civili sono rimasti feriti. Le bombe a grappolo sono munizioni indiscriminate che mettono a rischio per molto tempo la vita dei civili. Il loro uso è proibito.

Amnesty International ha anche documentato una trentina di attacchi indiscriminati da parte degli huthi e delle forze leali all’ex presidente Saleh nelle città meridionali di Aden e Ta’iz, che hanno causato 68 morti e 99 feriti tra la popolazione civile, in buona parte donne e bambini. Armi imprecise vengono usate quotidianamente per colpire centri abitati, col conseguente tributo di vittime civili e nel profondo disprezzo per le loro vite. Anche questi attacchi violano le leggi di guerra.

Se le parti in conflitto sono le prime da condannare per le flagranti violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani e per non aver preso misure adeguate per proteggere i civili, va sottolineato il ruolo determinante di quegli stati che hanno continuato a fornire armi per miliardi di dollari alla coalizione a guida saudita, alcune delle quali poi finite nelle mani degli huthi, e alle altre parti in conflitto nonostante fosse più che evidente il rischio che sarebbero state usate per compiere gravi violazioni dei diritti umani.

Tra gli stati che hanno alimentato il conflitto dello Yemen con le loro forniture illegali e irresponsabili ve ne sono molti che hanno firmato o addirittura ratificato il Trattato delle Nazioni Unite sul commercio di armi: tra questi, anche l’Italia, sulle cui istituzioni pende ora un esposto.

Non esiste un embargo complessivo sulle armi destinate ai protagonisti del conflitto.

La risoluzione 2216 del Consiglio di sicurezza, adottata nell’aprile 2015, ha imposto un embargo solo sulle armi dirette agli huthi e alle milizie alleate fedeli all’ex presidente Saleh. Il 25 febbraio una risoluzione non vincolante del Parlamento europeo ha chiesto al’Unione europea d’imporre un embargo solo nei confronti dell’Arabia Saudita.

La richiesta la fa ora Amnesty International, in occasione dell’incontro di Ginevra sullo stato di attuazione del Trattato sul commercio di armi.

L’organizzazione chiede a tutti gli stati di assicurare che nessuna parte coinvolta nel conflitto dello Yemen riceva direttamente o indirettamente armi, munizioni, equipaggiamento o tecnologia militare che si potrebbero usare per compiere gravi violazioni dei diritti umani.

L’embargo dovrebbe essere esteso anche all’assistenza logistica e finanziaria ai trasferimenti e dovrebbe comprendere non solo armi e materiali usati negli attacchi aerei della coalizione a guida saudita (come velivoli militari, missili e bombe) ma anche quelli usati negli attacchi da terra dagli huthi e dai loro alleati così come dai gruppi armati e dalle milizie che sostengono la coalizione, tra cui i razzi Grad (tipicamente imprecisi), i mortai, le armi leggere e i veicoli corazzati.

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