Il precariato è al massimo storico, la ripresa occupazionale è modesta, la narrazione del governo è “al servizio della conservazione del potere”. E’ questo il bilancio che Luca Ricolfi, sociologo e docente di analisi dei dati all’Università di Torino, traccia del Jobs act un anno dopo l’entrata in vigore dei primi decreti della riforma. Il capo del governo “sembra non comprendere il significato delle statistiche di cui parla”, attacca il professore mentre Matteo Renzi si appresta proprio lunedì, a 24 mesi dal suo insediamento, ad andare in visita alla Walter Tosto, azienda che produce macchinari per il settore petrolifero e “ha assunto con il Jobs Act”. Una settimana fa il premier aveva esultato per i 764mila contratti stabili in più certificati dall’Inps, ma l’interpretazione di quei dati fornita da Ricolfi è decisamente diversa.

Il governo sta celebrando i suoi due anni di mandato. Anche il ministero del Lavoro ha pubblicato una presentazione dove rivendica le “buone cose per il nostro Paese”, dal Jobs act a Garanzia giovani. Che idea si è fatto della narrazione che l’esecutivo sta facendo sui numeri del lavoro?
Questo è un governo come gli altri. Narrava Berlusconi, narrava Prodi, narrava Monti, narrava Letta. E le loro narrazioni erano implacabilmente al servizio della conservazione del potere, non certo della verità. Perché dovrebbe essere diverso sotto Renzi?

Lo slogan utilizzato dal governo per il Jobs act è: “Meno precarietà, più lavoro stabile”. Il Jobs act è stato in grado di ridurre l’occupazione precaria?
No, durante il 2015 il tasso di occupazione precaria, ossia la quota dei lavoratori dipendenti con contratti temporanei, ha raggiunto il massimo storico da quando esiste questa statistica (dal 2004), superando il 14%. Bisogna dire, tuttavia, che da settembre dell’anno scorso il tasso di occupazione precaria ha cominciato a ridursi, sia pure di pochi decimali.

Dopo gli ultimi dati Inps sui contratti, Renzi ha commentato: “+764mila contratti stabili nel primo anno di #jobsact. Amici gufi, siete ancora sicuri che non funzioni?”. L’aumento del tempo indeterminato è merito del Jobs act o degli sgravi?
Renzi sembra non comprendere il significato delle statistiche di cui parla. I 764mila posti stabili in più sono la somma fra il numero delle trasformazioni (578mila) e il saldo fra assunzioni e cessazioni (186mila). Per quanto riguarda le trasformazioni, è vero che quelle del 2015 sono state molte di più di quelle del 2013 e del 2014, ma se risaliamo anche solo al 2012 (l’anno di Monti) le trasformazioni erano state oltre 600mila, ossia un po’ di più di quelle vantate dal governo per il miracoloso 2015. E questo nonostante quello di Monti sia stato un anno di recessione. Resterebbe il saldo di 186mila contratti stabili in più. Duecentomila occupati stabili in più non sono tantissimi, ma comunque sono un progresso rispetto alle dinamiche degli anni scorsi. A che cosa sono dovuti? Per ora posso solo esprimere un’opinione: il contratto a tutele crescenti è molto meno importante della decontribuzione, e la modesta ripresa occupazionale in atto si deve innanzitutto al fatto che il Pil è tornato a crescere, più che a specifiche norme volte a favorire l’occupazione. Ma forse la misura più incisiva varata negli ultimi due anni è quella di cui nessuno parla.

Quale misura?
Il decreto Poletti del marzo 2014, che liberalizzava le assunzioni a termine, permettendo molteplici rinnovi. Questa misura va in direzione opposta a quella del Jobs Act, perché incentiva le assunzioni a tempo determinato. Quando si fa un bilancio del 2015 bisognerebbe considerare anche il saldo dei contratti precari (420mila), non solo di quelli stabili (186mila). L’aumento del tasso di occupazione precaria registrato dall’Istat si spiega con l’esplosione delle assunzioni a tempo determinato, che a sua volta potrebbe essere stato favorito dal decreto Poletti. Che poi una parte dei contratti a termine siano stati trasformati in contratti stabili non basta a modificare la dinamica profonda del mercato del lavoro. Alla formazione di posti di lavoro stabili si è affiancata una formazione di posti di lavoro precari, di cui si ha meno voglia di parlare.

Finora è valsa la pena di spendere gli 1,8 miliardi di euro della decontribuzione per raggiungere questi risultati?
No, non ne è valsa la pena, anche perché i miliardi sono almeno 12: il costo della decontribuzione è stato valutato in 5 + 5 miliardi nel biennio 2016-2017.

C’è il rischio che il mercato del lavoro sia stato drogato dagli incentivi? E che l’occupazione si sgonfi quando verranno meno?
E’ quello che temiamo tutti. Il test decisivo sarà il primo trimestre del 2016, i cui dati saranno disponibili a maggio. A quel punto si scoprirà se la modesta crescita di occupazione registrata nel corso del 2015 proseguirà, magari rafforzandosi, o si sgonfierà, perché era artificialmente sostenuta dagli incentivi. L’unica cosa che mi sento di dire, per ora, è che l’ultimo mese del 2015 ha pienamente confermato la profezia che fece Tito Boeri, e cioè che le assunzioni si sarebbero concentrate all’inizio e alla fine del 2015. Insomma, quella del 2015 potrebbe rivelarsi una piccola “bolla occupazionale”. Ma speriamo di no…

Quanto hanno influito i fattori macroeconomici (basso prezzo del petrolio, cambio euro/dollaro favorevole, quantitative easing) sul mercato del lavoro italiano?
Secondo la maggior parte degli studiosi i tre “propulsori” esogeni della nostra economia dovevano portare almeno 1 punto di crescita del Pil in più. Dato che, invece, siamo cresciuti solo dello 0,7%, vuol dire che senza quella spinta il nostro Pil avrebbe continuato a scendere anche nel 2015. Ma noi preferiamo raccontarci che “l’Italia ha svoltato”.

Quali misure servono per una ripresa strutturale del mercato del lavoro?
Una misura, il Job Italia, l’avevo proposta un paio di anni fa, come Fondazione David Hume e come La Stampa, ai tempi in cui scrivevo sul quotidiano torinese. L’idea è piuttosto semplice. Se prevediamo una decontribuzione ancora più forte di quella introdotta nel 2015, ma diamo il beneficio solo alle imprese che aumentano l’occupazione, creiamo abbastanza posti di lavoro aggiuntivi da rendere autofinanziante il provvedimento: più posti di lavoro, infatti, significano più reddito, e più reddito significa più gettito fiscale. Però l’idea del Job Italia non era “combattere il dramma dell’occupazione precaria”. Il “dramma dei precari” è una costruzione mediatico-politica, molto di moda da una decina d’anni, che è stata usata per nascondere il vero dramma di questo paese.

Quale dramma?
Il dramma dell’Italia non è che meno di 3 milioni di persone lavorino con contratti a tempo determinato, ma è che una cifra analoga se non superiore di lavoratori, spesso immigrati, lavorino completamente senza contratto, che altri 3 milioni di persone cerchino un lavoro senza trovarlo, e altri 3 milioni ancora un lavoro manco lo cerchino, perché hanno perso la speranza di trovarlo. Ho chiamato Terza società questo esercito di 10 milioni di persone di cui nessuno si occupa, e che fanno la vera differenza fra l’Italia e la maggior parte dei Paesi avanzati.

Articolo Precedente

Lavoro, due anni di Poletti: le “buone cose per il Paese” dal Jobs act a Garanzia giovani. Ma conti non tornano

next
Articolo Successivo

Caporalato, “400mila persone lavorano nei campi per meno di 2,5 euro l’ora”

next