Sul palco, nero e nudo, si alternano i sette attori, di nero vestiti. La forza è tutta nel testo e nelle loro voci. Nessun effetto speciale. Eppure Il vicario, opera teatrale di Rolf Hochhuth datata 1963, inchioda lo spettatore per ottanta minuti catapultandolo in una pagina cruciale della storia recente: i rapporti fra la Chiesa e il nazismo, il silenzio di Papa Pio XII sulla Shoah.

nazismo 640

In scena fino al 28 febbraio al Teatro dell’Elfo di Milano, Il vicario è l’avvincente racconto della presa di coscienza di due personaggi finiti negli infernali ingranaggi delle rispettive istituzioni: uno, Kurt Gerstein, ufficiale medico delle SS, membro dell’Istituto di Igiene e capo del Servizio tecnico di disinfestazione dei campi di concentramento, realmente esistito; l’altro, Riccardo Fontana, prete italiano, di fantasia. Intorno a loro, comprimari della Storia: un ebreo, alcuni aguzzini, il Nunzio Apostolico a Berlino, il “dottor morte” Josef Mengele.

L’assunto dell’opera, contestatissima in Germania al suo esordio, censurata nell’ Italia nel 1965 (il prefetto di Roma vietò lo spettacolo perché contrario alle norme contenute nel Concordato), ripresa nel 2002 da Costa Gavras nel film Amen, è che la Chiesa di Roma fosse al corrente di quanto accadeva nei campi di concentramento e, benché sollecitata da più parti a esprimersi per condannare lo sterminio degli ebrei degli oppositori al nazismo, si astenne.

Un silenzio colpevole, al limite della correità: “Non fare nulla non è meno luttuoso del collaborare”, dice il prete Fontana. Che infatti riferisce in Vaticano quanto ha saputo. E porta al Papa la testimonianza dall’interno di Kurt Gerstein, sconvolto dalla scoperta dell’uso che si faceva nei lager dello Zyklon B, la sostanza chimica che avrebbe dovuto liberare i campi dai parassiti e che veniva invece usata per gassare gli ebrei.

Gerstein morì a Parigi, nel 1945, nel carcere dove era stato rinchiuso con l’accusa di complicità nelle violenze naziste. Forse suicida, più probabilmente assassinato da altri gerarchi compagni di prigionia. Ci vollero vent’anni prima che venisse completamente riabilitato. Ma questo nell’opera non è detto.

Il gesuita Riccardo Fontana, inascoltato dalla Santa Sede, colpevole di aver oltraggiato la tonaca “sporcandola” con la stella di Davide ricevuta da un ebreo, ma soprattutto di non assecondare la linea non interventista di Papa Pio XII, decide infine di rendere personale testimonianza accompagnando ad Auschwitz gli ebrei romani rastrellati nel ghetto. Ma questo, ovviamente, nella realtà non è successo.

Bravissimi gli attori (Matteo Caccia, Marco Foschi, Nicola Bortolotti, Giuseppe Lanino, Enrico Roccaforte, Cinzia Spanò, Rosario Tedesco, quest’ultimo anche regista). Toccante la Lettera di una ragazza ebrea di Ostia, testo dedicato da Rolf Hochhuth a tutte le vittime del silenzio della storia ufficiale, recitata a ogni fine rappresentazione da un diverso ospite (Nora Foeth, Franca Nuti, Moni Ovadia, Ferdinndo Bruni, Elio De Capitani, Sumaya Abdelk Qader).

Articolo Precedente

“Generazione Disagio”, va in scena il precariato dei trentenni

next
Articolo Successivo

Umberto Eco, quella volta in cui lo incontrai

next