“Nelle foibe morì una piccola parte di italiani. La maggioranza fu uccisa nei campi di concentramento in Jugoslavia”. A fare chiarezza in occasione del Giorno del Ricordo, istituito nel 2004 per commemorare, il 10 febbraio, le vittime italiane delle foibe titine, è Guido Franzinetti, docente di Storia dei territori europei all’università del Piemonte Orientale di Vercelli. Giusto ricordare le foibe, per lo studioso, ma il gran numero delle vittime italiane fu da tutt’altra parte. “Il che non consola nessuno”, aggiunge.

“Foibe”: una sola parola per indicare una serie di crimini diversi – Nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945, nell’Istria vessata da anni di fascismo e italianizzazione forzata prima e dall’occupazione nazista poi, il vuoto di potere lasciò spazio a feroci ondate di violenza che colpirono a vario titolo italiani e non. I comunisti di Tito misero in atto arresti, esecuzioni, deportazioni nei campi di concentramento balcanici, portando alla morte brutale di migliaia di civili e all’esodo di altrettante persone, persino a guerra finita. Nelle foibe, una parola dialettale che deriva dal latino fovea (fossa) e che indica cavità profonde anche decine di metri, tipiche dei terreni carsici, sparirono migliaia di persone. Ma furono solo una minima parte delle vittime italiane, come ricorda Franzinetti, tra gli autori, insieme allo storico sloveno Jože Pirjevec (nato Giuseppe Pierazzi), di Foibe. Una storia d’Italia, edito da Einaudi, la più completa e rigorosa indagine sul tema condotta negli archivi croati, sloveni, russi, italiani, statunitensi e britannici.

Esuli e vittime: il problema dei numeri – La storia si ripete all’inverso. Vent’anni prima erano stati i “porchi de s’ciavi” a sfuggire alle persecuzioni fasciste emigrando in Jugoslavia dalle province del Venezia Giulia, e tra il 1942 e il 1943 migliaia di persone avevano perso la vita nei campi di concentramento fascisti, il più famigerato dei quali era sull’isola di Arbe (Rab), dove persero la vita circa 1500 donne e bambini. Con l’occupazione jugoslava di Pola, Gorizia e Trieste, nel maggio del ’45, furono deportate circa 3.400 persone di varia etnia, secondo le stime degli angloamericani. Di queste, più di un migliaio perse la vita in esecuzioni, ma anche in prigioni jugoslave e in campi di concentramento. Si aggiungano le vittime, perlopiù italiane, delle zone multilingue della Dalmazia, dell’Istria, di Fiume e delle isole del Quarnero: forse 700 o 800 persone, finite soprattutto nelle prigioni di Kočevje, da dove poi venivano fatte sparire. Tra loro non c’erano solo fascisti, ma anche gente comune e antifascisti, colpevoli di essere contrari all’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia.

“Tutti gli storici sono riluttanti a dare una cifra precisa delle vittime delle foibe. Al di là delle oscillazioni, le stime più alte vanno nell’ordine delle diverse migliaia. Quanti furono gli esuli? Una delle cifre più alte diceva 350mila, le cifre più basse sono sull’ordine dei 200mila. Ma sono comunque cifre significative in un’area piccola come quella istriana”, commenta Franzinetti. Perché tanta confusione sul numero degli esuli? “Non c’è nessun modo – spiega lo storico – di distinguere tra italiani che venivano espulsi e intimiditi, e non italiani che giustamente colsero l’occasione per andarsene via dalla Jugoslavia comunista di cui non tutti gli jugoslavi erano entusiasti. Come si distingue un croato bilingue da un italiano? Non è possibile”.

Non solo contro gli italiani: i titini si accanirono anche su tedeschi, ungheresi e indigeni – A finire nel mirino dei titini, anche i tedeschi del Banato. Le vittime tedesche furono altrettanto se non più numerose di quelle italiane: 200mila gli esuli o i deportati nel 1944. Tra loro, 69mila furono trucidati. Erano accusati di aver collaborato con i nazisti durante l’occupazione, tra le fila di Wehrmacht e SS. Stessa sorte per alcune minoranze ungheresi. Ma l’epurazione più tremenda l’hanno vissuta gli indigeni, soprattutto i borghesi ostili al nuovo regime.

Le colpe della politica e quelle dell’opinione pubblica italiana – A lungo la sinistra italiana ha cercato di mettere in sordina le atrocità dei comunisti titini e la questione degli esuli. Un silenzio rotto almeno in parte nel 2007 da Giorgio Napolitano, che però, nel suo discorso sulle foibe, non usò mai l’aggettivo “comunisti”. “Mancanza di sensibilità storica e politica dovuta ai suoi trascorsi di comunista. Da parte della sinistra classica ci fu una tendenza a minimizzare – commenta lo storico Franzinetti – e negare. Non ci piove. Per molto tempo l’estrema destra è stata l’unica forza che batteva su questo tema, un campo lasciato aperto dalle altre forze politiche”.
Oggi che la Foiba di Basovizza, a Trieste, è un monumento nazionale ed esiste il Giorno del Ricordo, gli italiani preferiscono dimenticarsene.

“La cosa più difficile da accettare per gli esuli – commenta il professore – è che il resto degli italiani non voglia sentire queste storie. Spesso gli unici che vengono ai dibattiti sulle foibe sono proprio gli esuli o i figli di esuli. Non è simpatico per chi ha perso dei cari, non importa se fosse fascista o antifascista. E’ molto più duro accettare che non se ne parli per il disinteresse degli italiani piuttosto che per una cospirazione politica del silenzio”. Anche la storiografia croata e slovena ha riconosciuto quello che è successo. “In quei Paesi – spiega Franzinetti – c’è un grosso settore ben contento di riconoscere crimini ai comunisti sloveni e croati: oltre agli italiani furono uccisi molti più sloveni e croati”.

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