Talat Shabeeb è stato arrestato a Luxor per possesso di stupefacenti lo scorso novembre. Alcuni giorni dopo è morto in cella. Le versioni ufficiali parlavano di un peggioramento improvviso delle sue condizioni di salute. Il cugino della vittima Hassan aveva però denunciato alla stampa locale di aver visto dei lividi e dei segni di tortura durante il riconoscimento del cadavere. La sua morte aveva provocato delle proteste nella cittadina egiziana, nota per le sue attrazioni turistiche. Manifestazioni che, visto lo stato di dura repressione, erano durate pochi giorni. Ma il caso della sospetta morte di Shabeeb non è isolato.

Diverse organizzazioni per i diritti umani locali e internazionali hanno più volte denunciato le torture portate avanti dalle forze di sicurezza egiziane. Appelli che spesso sono rimasti inascoltati ma che ora tornano all’attenzione dell’opinione pubblica solo dopo la morte di Giulio Regeni, il dottorando italiano dell’Università di Cambridge ritrovato morto nella periferia del Cairo mercoledì scorso.

Human Rights Watch ha definito l’attuale regime di al-Sisi il più “repressivo” della storia egiziana. Più violento del precedente trentennio di Mubarak nonostante già allora, nel 2011, Hrw parlasse dell’”endemicità delle torture” nelle carceri e nei commissariati egiziani dell’ex rais. Il presidente Sisi è salito al potere nel luglio del 2013 quando da ministro della Difesa depose il presidente Mohammed Morsi, il leader dei Fratelli Musulmani eletto l’anno prima nelle prime presidenziali democratiche, dopo la rivoluzione di piazza Tahrir. Nella primavera del 2014, dopo diversi arresti di massa degli oppositori e pesanti restrizioni delle libertà del personale, Sisi vinse le elezioni presidenziali con percentuali bulgare contro un solo sfidante, Hamdeen Sabbahi.

Già nei mesi successivi alla deposizione di Mohammed Morsi le organizzazioni per i diritti umani iniziarono a ricevere numerose segnalazioni di torture. Tra quelle raccolte dal Nadeem Center, uno dei centri più attivi anche durante la dittatura di Mubarak, c’è quella di Amr (questo è un nome di fantasia), uno studente di 19 anni arrestato 8 mesi dopo il colpo di stato del generale Sisi.

Nell’estate del 2014 la sorella di Amr ha raccontato in forma anonima a Il Fatto Quotidiano che il fratello era stato arrestato mentre era seduto con degli amici in una caffetteria nel centro del Cairo. “Per settanta giorni non abbiamo avuto sue notizie, solo dopo lunghe ricerche abbiamo scoperto che si trovava in una prigione militare dove è stato ripetutamente vittima di torture”. Amr è ancora in carcere. L’accusa è di far parte di Ansar Bayt al-Maqdis, il gruppo jihadista (ora affiliato all’Isis) presente nella penisola del Sinai e responsabile di numerosi attentati e attacchi contro le forze dell’ordine.

Secondo gli avvocati del centro per i diritti umani il giovane avrebbe deciso di confessare dopo alcuni giorni di tortura. “Aveva paura di morire, soffre di cuore da quando era bambino e temeva che le scariche elettriche a cui veniva sottoposto gli avrebbero provocato un collasso cardiaco”, ha dichiarato a ilfattoquotidiano.it un amico di Amr. Anche Abdallah, questo è un altro nome di fantasia, ha conosciuto la tortura alcuni mesi dopo il colpo di stato del 2013. Era stato arrestato il 25 gennaio del 2014 durante la manifestazioni per il terzo anniversario della rivoluzione e poi rilasciato due mesi dopo.

La moglie ha riportato a ilFatto.it i soprusi che Abdallah ha subito in cella. “Lo hanno tenuto fuori al freddo per ore con le mani legate dietro la schiena mentre alcuni agenti buttavano dell’acqua su di lui”. Il ministero degli Interni è da sempre stato il nemico numero uno per i manifestanti che 5 anni fa erano scesi in piazza a chiedere la caduta del regime. Ma le promesse di riforma del Ministero – fatte durante il periodo di transizione – non si sono mai avverate e le pratiche di violenza non sono mai finite.

Lo dimostra un’altra storia raccolta dagli attivisti per i diritti umani. Samir ora ha 19 anni ed è originario del Sudan. Venne arrestato nel centro del Cairo nel maggio del 2013 quando alla presidenza c’era Mohammed Morsi. La sua famiglia racconta che è stato torturato per più di 3 settimane. “Lo presero da via Mohammed Mahmoud (strada che da piazza Tahrir porta al Ministero degli Interni)”, dice la mamma. “L’accusa era quella di aver dato fuoco a una macchina della polizia anche se l’attacco era avvenuto il giorno prima”.

Samir è stato tenuto per 10 mesi nel seminterrato di una prigione del centro del Cairo dove un gruppo di poliziotti lo picchiava ogni giorno. “Era una cella di un metro quadrato senza cibo e senza bagno”. “L’elettroshock, le violenze sessuali e altre tecniche sono utilizzate al fine di ottenere confessioni e avere informazioni di possibili organizzazioni terroristiche o oppositori”, scrive in un report l’Ecrf (Egyptian Commission for Rights and Freedom). “Il governo egiziano sta dando la luce verde a torture e soprusi lasciando impuniti i membri delle forze di sicurezza che commettono questi crimini”.

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