sala 675

Milano. Qui una volta c’era l’opinione pubblica. Proprio come uno se la studia sui libri. Tanti centri di potere. Economici, politici, editoriali, culturali, scientifici, professionali, giudiziari, religiosi. Tante voci indipendenti. C’era sempre una umanità influente che diceva la sua, anche se sgradita ai vari poteri, “tanto non dipendo da nessuno”. Ecco, non c’è più.

Ha tirato giù la clèr (in lombardo la saracinesca). Quel che sta accadendo con le primarie del centrosinistra milanese ha qualcosa di incredibile. Quasi fosse in atto una prova di mutazione socio-genetica. Come è noto, sono in lizza tre candidati (più uno di complemento). Uno di questi tre è il dottor Giuseppe Sala, che dal momento della candidatura i supporter cercano di far chiamare affettuosamente “Beppe” dai milanesi. Il dottor Sala è stato finora amministratore delegato e commissario governativo di Expo. Su di lui e sulla conduzione del grande evento vi sono opinioni discordanti, anche se il successo finale della manifestazione ha diffuso in città una comprensibile ventata di soddisfazione.

Il fatto è che quando si tratta di affidare a qualcuno cariche istituzionali, oltre al valore della persona o ai suoi meriti professionali, intervengono nella formazione del giudizio altri parametri. Molto diversi.

E il primo è la cultura istituzionale, che non è una cosa che si inventa. Essere un capace uomo d’azienda non significa sapere essere un bravo sindaco o senatore. Se ne sono avuti esempi a bizzeffe, ma una buona parte di Milano (i trionfi di Berlusconi e perfino di Dell’Utri lo testimoniano) è molto restia a capirlo. Nel caso del dottor Sala, la cultura istituzionale suggerirebbe ad esempio l’improponibilità del ruolo di sindaco per chi sarà chiamato dal Comune di Milano, socio di Expo, a rispondere dei risultati del proprio operato come amministratore delegato su uno dei più grandi e discussi investimenti della storia postbellica cittadina. In quel caso infatti il sindaco giudicherebbe se stesso, governando inevitabilmente informazioni e valutazioni. Senza contare il doppio ruolo conflittuale in cui egli si verrebbe a trovare nella complicata (ma ricca) contesa tra Expo e Arexpo. O gli interessi cresciuti intorno a Expo che verrebbero trascinati per forza di gravità nel governo della città metropolitana.

Non è difficile capire il problema. Che è squisitamente di regole. Meglio: di spirito pubblico. Nel frattempo il dottor Sala appare riluttante a rispondere su ciò su cui non può non rispondere (ecco dove si vede in controluce il futuro sindaco), ossia il bilancio di Expo, l’uso che è stato fatto del denaro pubblico. Anche perché è proprio sul suo ottimo uso che ha fatto leva l’idea di candidarlo a sindaco. Nulla è reato, ma la cultura istituzionale non è il codice penale.

Ecco, queste considerazioni elementari e assolutamente educate e civili a Milano le fanno alcune mosche bianche. Ma l’opinione pubblica, quella di una volta, larga e bella corposa, quella del “ma perché non dovrei dirlo?”, tace. Tace anche quella che ha deciso di votare o tifa per gli avversari del dottor Sala, in mezzo alla quale c’è chi pensa che se poi vince lui, tra partito della nazione e dimagrimento dei pluralismi, con Milano perfettamente allineata a Roma qualche inconveniente potrebbe esserci.

A chi si affida allora questa città silente? Qualcuno dirà “spera nella magistratura”. E sbaglia, non solo perché la magistratura milanese con la sua “sensibilità istituzionale” (riconosciutale da Renzi proprio su Expo) non se la passa proprio bene, ma perché il punto è un altro. Il punto è parlare. Ed è qui che si verifica un fatto enorme, mai visto. “Bisogna che lo scriva Il Fatto”, si dice ovunque, “bisogna dirlo a Barbacetto”. Girano email e si inseguono conversazioni telefoniche – giungono anche a me all’estero – in cui persone autorevoli e dotate di una certa libertà si comunicano notizie e illazioni per concludere che “bisogna farlo scrivere da Barbacetto sul Fatto”.

Il nome di una testata, il nome di un giornalista, al posto di un’opinione pubblica che metteva in fila come niente Bocca e Biagi, Montanelli e la Cederna, ma anche Martini e il vocione di padre Turoldo. Con lo stesso giornalista trattato dai fan del dottor Sala, nella capitale dell’informazione, come un disturbatore dell’ordine pubblico, associato all’immagine della ghigliottina perché ormai le domande, le civilissime domande al potere, da sostanza della democrazia sono diventate metaforicamente sete di sangue. Per questo il dottor Sala può “diffidare” (testuale) i giornalisti dall’avanzare dubbi sul bilancio di Expo senza che vi sia uno scatto di amor proprio, un guizzo di libertà collettiva. Queste primarie non sono belle. Ma Milano senza più opinione pubblica raggela il cuore.

Il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2016

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