“Risulta che Ella ha avuto piena consapevolezza e conoscenza di una articolata condotta finalizzata a far risultare una qualità del servizio di recapito divergente da quella reale”. E inoltre “non risulta che Lei abbia comunque contrastato la richiamata condotta”. E’ un atto d’accusa pesantissimo quello che il nuovo amministratore delegato delle Poste, Francesco Caio, rivolge a Gennaro Celotto con una lettera di “contestazione di addebito” che Ilfattoquotidiano.it ha potuto leggere. Chi è Celotto? Fino a non molto tempo fa alle Poste Celotto era uno dei papaveri più alti, responsabile nazionale nel 2013 di uno dei settori nevralgici dell’azienda: il servizio qualità. E tuttora è un dirigente di alto livello a cui da un decina di mesi fa hanno affidato il compito della “progettazione e dell’architettura dell’assetto complessivo della rete di logistica”.

Ora Celotto è sul filo del licenziamento, essendo stato individuato dai nuovi capi dell’azienda come uno dei dirigenti coinvolti nella truffa delle lettere. Un gigantesco imbroglio che secondo le informazioni ufficiali di fonte aziendale per ora coinvolge circa 200 dirigenti (anche se solo per 20 sono pronte le lettere di licenziamento e tra questi non ci sarebbe Celotto). Un raggiro che Il Fatto cominciò a raccontare fin dalla fine del 2013 e che ha progressivamente continuato a svelare con una serie di articoli e di inchieste successive di vari autori. Alle precise e documentate rivelazioni del nostro giornale è stato proprio Celotto a rispondere a suo tempo sia per telefono sia attraverso lettere, negando sempre in modo risoluto ogni circostanza e ogni addebito. Gli stessi fatti ora gli vengono contestati addirittura dal capo della sua azienda.

Ai dirigenti delle Poste a cui è stata consegnata la lettere di addebito sono stati concessi cinque giorni di tempo per rispondere “producendo le eventuali giustificazioni”. Dopo di che l’azienda deciderà il da farsi: è molto probabile che per i dirigenti ritenuti coinvolti il licenziamento scatti sulla base dell’elementare constatazione che sarebbe venuto meno nel frattempo il rapporto fiduciario che li legava all’azienda. Nei mesi passati su ordine di Caio le Poste sono state passate ai raggi x di un audit interno che puntava proprio sul monitoraggio della qualità del servizio di recapito. Sono stati esaminati i pc di numerosi dirigenti e sono state passate al setaccio le email.
Dall’indagine sono emerse “gravissime irregolarità in relazione ai prodotti di corrispondenza nazionale e internazionale, riguardanti anche i cosiddetti Grandi clienti”. Per quanto riguarda Celotto “è risultato che è presente nella corrispondenza per posta elettronica (almeno 6 mail ndr) scambiata tra addetti e responsabili di strutture territoriali di servizi postali”. Da questa corrispondenza “emerge incontrovertibilmente la illecita finalità di far risultare una qualità del servizio di recapito divergente da quella reale”.

Il meccanismo della truffa era allo stesso tempo ingegnoso e semplice. Semplice perché imperniato su un presupposto elementare: dal momento che i risultati della qualità, cioè la puntualità della corrispondenza, si basa sui dati elaborati sulla consegna delle lettere a campione, basta individuare quelle lettere, farle correre come lepri e il gioco è fatto. La qualità del servizio è verificata attraverso società esterne a Poste, in particolare la Izi, tenute al segreto sia dei nominativi di chi spediva le lettere campione sia dei destinatari delle stesse. Alcuni dirigenti delle Poste erano però riusciti a individuare questi nominativi e avevano organizzato un complesso sistema prima per intercettare le lettere spedite, in gergo chiamate i “noti invii“, e poi per incanalarle su un sistema di consegna parallelo e ultraveloce.

In questo modo si falsavano i dati sulla qualità, cioè si abbellivano a piacimento gli standard nazionali di puntualità nella consegna della corrispondenza. Che non sono un dettaglio secondario e neanche una curiosità puramente statistica, ma hanno un impatto notevole sulla vita dell’azienda e sul rapporto che essa intrattiene con lo Stato. Basti pensare che gli obiettivi sono fissati con una delibera formale dell’Autorità per le comunicazioni. L’ultima risale a metà giugno 2015, è lunga 35 pagine e opportunamente fissa obiettivi di puntualità più bassi rispetto al passato, l’80 per cento delle lettere spedite invece dell’88, forse in considerazione del fatto che il lusinghiero obiettivo precedente veniva raggiunto solo sulla carta e con sistemi poco ortodossi.

Sulla base del raggiungimento o del mancato rispetto dei livelli di puntualità lo Stato stabilisce penali e calibra le sovvenzioni annuali nei confronti dell’azienda delle lettere (in media intorno ai 300 milioni di euro). Obiettivi di puntualità rispettati significano, in sostanza, più soldi per le Poste e poi anche per i dirigenti dell’azienda perché è legata proprio alla puntualità una parte consistente dell’Mbo (in inglese management by objectives) annuale, cioè il premio riconosciuto ai capi postali per gli obiettivi raggiunti, una gratifica che in alcuni casi in passato è stata superiore anche ai 200mila euro.

La truffa sulle lettere produceva in sostanza almeno tre effetti dannosi. In primo luogo colpiva i clienti, cioè i cittadini, perché si faceva credere a tutti che il servizio postale funzionava come un orologio svizzero nonostante la percezione diffusa fosse completamente diversa. In secondo luogo si raggirava lo Stato a cui le Poste facevano credere di essere un esempio di produttività e di efficienza. E infine attraverso i dati falsi sulle consegne alcuni dirigenti si gonfiavano le tasche, evitando di essere invece messi alla gogna così come forse sarebbe stato più giusto per il pessimo servizio offerto. Considerato tutto questo è difficile credere che un raggiro del genere, che ha coinvolto centinaia di dirigenti postali, sia stato architettato senza che questi ultimi abbiano ottenuto dai vecchi capi dell’azienda un avallo sostanziale anche se probabilmente non formale e una copertura di fatto.

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