“Studiate l’autopsia, lì c’è la firma del killer di Aldo Moro“. L’audizione di don Fabio Fabbri, il braccio destro del cappellano delle carceri Cesare Curioni, scorreva liscia, interessante ma senza particolari novità. La trattativa voluta da Paolo VI; il misterioso intermediario, forse due, che Curioni incontrava quasi sempre a Napoli, nelle toilette della metropolitana, qualche volta andò anche al Nord; i 10 miliardi raccolti dal Papa – “non erano soldi dallo Ior, questo lo so per certo”, dice Fabbri in uno dei passaggi che fin lì si annuncia come il più intrigante, tanto che la seduta per qualche minuto viene segretata (in serata in presidente Fioroni farà sapere che Fabbri ha fornito notizie utili per identificare la provenienza di quei soldi); l’interruzione dei contatti che, per tutta la durata del sequestro furono intensi, almeno una volta alla settimana; l’agente segreto “Gino“, che lo segue durante i 55 giorni, e poi incontra anche dopo: non sa il suo nome ma dà tutte le indicazioni per rintracciarlo, “era lo zio di una donna di cui ho celebrato il matrimonio”.

Ma ecco che, passata una buona oretta dall’inizio, il sacerdote fa un leggero movimento sulla sedia e dice: “A questo punto ve lo devo dire: ma l’avete guardata bene l’autopsia?”. Silenzio in sala, come si suol dire. Fabbri prende a spiegare che il primo a cui furono mandate le foto dell’autopsia, proprio appena fatta, fu proprio Curioni: “Io ero lì con lui, come sempre, le guardammo insieme, in tutto erano 5, 6, forse 8. Si vedeva in modo chiaro che sei colpi erano stati sparati attorno al cuore di Moro, fotografato separatamente. Curioni ebbe un sussulto, ‘io conosco il killer, è un professionista, quella è la sua firma”. Bisogna tener presente, per cogliere il peso di questo inedito ricordo (ebbene sì, dopo 38 anni) che monsignor Curioni conosceva molto bene il mondo dei penitenziari italiani: sin dal periodo dell’attentato a Togliatti (14 luglio 1948), aveva una intensa attività e frequentissime relazioni dentro le carceri italiane, ne respirava l’aria, conosceva bene i suoi abitanti, captava gli umori, sentiva le confidenze.

Ebbene di quell’uomo, il killer di professione, si parlava nell’ambiente criminale, e le dicerie erano rimbalzate anche al suo orecchio: tra quelle più macabre c’era il particolare di quella firma, i sei colpi attorno al cuore. Curioni nel tempo aveva messo ben a fuoco l’identità di quell’inquietante personaggio perché lo aveva conosciuto in passato, quando era ancora solo un piccolo delinquente e venne portato al Beccaria, il carcere minorile di Milano. Forse negli anni aveva avuto qualche altra notizia di lui, sapeva che era stato a lungo all’estero. Fino a quel giorno in cui vede il cuore di Moro e crede di riconoscere quella firma. La scena finisce qui. L’audizione è finita. C’è una nuova pista da seguire. Ma sarà possibile trovare riscontri, fare qualche passo in avanti più concreto? Avrà mai un volto questo killer? Vedremo, forse ci saranno sviluppo investigativi.

L’inchiesta va avanti, ma che amarezza quella frase del sacerdote, persa tra l’immagine di un cuore colpito a morte e quella di killer maniacale: Fabbri svela che ci fu un “successivo accordo tra Andreotti e don Cesare che aveva chiesto al presidente del Consiglio la garanzia che non sarebbe mai stato chiamato a parlare del suo coinvolgimento nel caso Moro. Una richiesta che venne accolta dal presidente Andreotti”.

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