E’ un Sergio Rubini che si racconta con generosità quello che abbiamo incontrato domenica mattina al Teatro Studio Frigia di Milano , dopo una settimana intensa di lavoro divisa tra lo spettacolo teatrale “ Provando… dobbiamo parlare” e una masterclass  organizzata dalla emergente Milanofilmacademy  che ormai si sta consolidando come una delle più interessanti e innovative scuole di recitazione cinematografica  del territorio milanese.

RUBINI DI MONTE

L’attore e regista ha voluto salutare così i suoi allievi insieme agli appassionati Cinematti su Facebook, con una conversazione a tutto campo che parte dai suoi esordi e da come si è ritrovato in un mondo che inizialmente non lo interessava – “volevo fare il musicista, mi ero pure tinto i capelli” – ma che il caso o forse il destino gli ha offerto. E così il giovane Sergio scopre il “potere” della recitazione dal quale non si è più voluto separare.

Recitare significa immedesimarsi, entrare nel mondo degli altri, sospendendo qualsiasi giudizio, interpretare un personaggio alla luce delle sue motivazioni . In questo senso gli attori sono autori perché accedono al loro mondo interiore, sono medium che portano qualcosa al di fuori di se stessi. Non sono strumenti ma filtri.

Rubini va a ruota libera e parla della sofferenza del mestiere dell’attore, di personali problemi d’identità, come qualcosa che manca o si ha in eccesso, disagio che l’artista riesce a colmare o a modulare entrando nell’identità dei personaggi .

E’ un pubblico curioso quello che ha davanti, un pubblico che lo incalza di domande. Ed ecco che Sergio si commuove quando ricorda Fellini “è stato come un padre per me e sono convinto di essere stato scelto da lui per il film Intervista dell’87, oltre che per la mia magrezza, anche per un motivo fanciullesco e giocoso: si chiamava Marcello Rubini il Mastroianni protagonista della Dolce Vita”.

“Tu sei Joystick!” così gli si rivolge Salvatores quando lo incontra per la prima volta e senza nessun provino gli offre la parte nel film Nirvana. L’immediatezza con la quale si può entrare in sintonia con qualcuno è tutta raccontata in questo  episodio. A volte i provini non sono necessari, quello che conta è lavorare con l’attore, imparare anche da lui, sentire il suo punto di vista che ti permette di migliorare, cambiare la scena.

“Sono orgoglioso anche attraverso questi stage di aver intuito il talento di numerosi ragazzi , molti dei quali oggi hanno trovato una loro strada” e cita l’esempio del suo film Tutto l’amore che c’è e di quei dodici ragazzi tra i quindici e vent’anni tra cui Vittoria Puccini, che oggi lavorano tutti.

Si fa un passo indietro e si torna alla stazione. A quello che ha rappresentato per lui, sia il nonno sia il padre capi stazione,  un luogo che dunque ha frequentato fin da bambino e che è stato il soggetto del suo primo lungometraggio. Ed emozionato ci racconta della sofferenza del padre che avrebbe desiderato fare il pittore senza riuscirci, e che ha fatto di tutto per impedire che Sergio sentisse questo ambiente troppo familiare, consentendogli di coltivare meglio i suoi sogni artistici. E la capacità evocativa viene fuori in tutta la sua potenza, perfino in una conversazione  informale.

L’ultima battuta è sui progetti. Un film con Giovanni Veronesi, una  nuova sceneggiatura e sorridendo ci annuncia di voler lavorare tanto per comprarsi una casa.

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