Secondo i più pessimisti potrebbe essere la miccia in grado di innescare una crisi finanziaria simile a quella del 2008. Al momento pare una visione un po’ troppo apocalittica ma è certo che il nervosismo sulla situazione del comparto energetico statunitense, molto indebitato nei confronti di banche e obbligazionisti, sta montando di pari passo con la discesa delle quotazioni petrolifere. Le società più in difficoltà sono quelle specializzate nello shale oil, ossia l’estrazione di petrolio non convenzionale da rocce di scisto bituminose che si è molto sviluppata negli Stati Uniti in questi anni, assicurando al paese la quasi totale indipendenza energetica. Pur con importanti differenze tra un giacimento e l’altro, questo tipo di produzione risulta profittevole finché il petrolio si vende ad almeno 50-60 dollari al barile. Quasi il doppio rispetto alle quotazioni odierne.

Secondo alcune simulazioni se le quotazioni rimarranno su questi livelli un produttore statunitense ogni tre sarebbe a rischio default entro il 2017. Un centinaio di società del settore presentano già oggi un cash flow negativo: semplificando spendono più di quanto incassano. E solo queste hanno debiti in circolazione per oltre 300 miliardi di dollari. Il problema è infatti che molte delle piccole compagnie nate in questi anni con un petrolio vicino ai 100 dollari si sono molto indebitate per avviare la loro attività, approfittando di tassi ai minimi storici e di ingenti masse di denaro in cerca di sbocchi. Queste obbligazioni o le hanno comprate un po’ tutti, non solo gli operatori più speculativi, perché qualche punto di rendimento aggiuntivo appariva quasi un miraggio. Specialmente per soggetti finanziari come fondi pensione e assicurazioni che hanno una qualche forma di vincolo sulle prestazioni da corrispondere ai sottoscrittori.

Il primo allarme ufficiale sul rischio potenzialmente sistemico di questa situazione è contenuto in uno studio della Banca dei regolamenti internazionali del marzo 2015. Si sottolineava in particolare come il debito complessivo del comparto oil and gas fosse balzato dai 1.000 miliardi di dollari del 2006 ai 2.500 miliardi del 2014. Lo scorso dicembre si sono registrati i primi crolli di fondi specializzati in obbligazioni ad alto rendimento, per lo più legate al comparto oil&gas statunitense. Nel giro di pochi giorni Third Avenue Management, Ston Lion Capital e Lucidus Capital partners hanno congelato i rimborsi ai sottoscrittori. Qualcuno ha rievocato quanto accadde nella primavera del 2007 quando due piccoli fondi di Bear Stearns specializzati in mutui subprime chiusero i battenti. Un’analogia inquietante rafforzata dal fatto che alcuni dei manager dei fondi chiusi a dicembre erano gli stessi che lavoravano per Bear Stearns 8 anni fa.

Come è emerso dalle trimestrali diffuse in questi giorni anche i big del credito a stelle e strisce iniziano a fare i conti con le conseguenze dei default. Citigroup ha ad esempio un’esposizione verso il settore energetico per quasi 60 miliardi di dollari (circa il 10% del totale) con una prevalenza di titoli ‘investment grade’ ossia, almeno in teoria, relativamente sicuri. Nell’ultimo trimestre del 2015 il gruppo ha comunque alzato di 250 milioni di dollari le sue riserve in vista delle possibile perdite sul portafoglio di titoli energetici. Una strada seguita anche da Jp Morgan che ha accantonato altri 125 milioni e che presenta una esposizione ai settori oil&gas/energia pari al 5% dei suoi asset. Più delicate le posizioni di Morgan Stanley che ha in pancia titoli legati al settore per quasi 16 miliardi, il 14% del totale, e quella di Wells Fargo esposta per 17 miliardi (3% del totale degli asset) soprattutto su società con rating “junk”, con perdite attese per almeno 1,2 miliardi.

Sono cifre importanti ma di per se non così grandi da sollevare preoccupazioni per la stabilità di pesi massimi del credito. Quando la crisi dei mutui deflagrò gli asset immobiliari rappresentavano circa un terzo degli attivi del sistema bancario. Nel caso dei debiti dell’oil&gas non si arriva al 5%. Tuttavia, nel più classico schema della pallina di neve che rotolando diventa sempre più grande, qualche rischio esiste. Tra gli strumenti finanziari il contagio corre veloce. Quando ad esempio un fondo si vede sommerso da richieste di rimborsi dei sottoscrittori spaventati dalla perdita di valore dei titoli inizia a vendere tutto quello che ha in portafoglio senza troppo badare al prezzo. Questo fa si che finiscano sul mercato anche titoli non direttamente a rischio ma il cui prezzo inizia a scendere visto l’eccesso di offerta.

La sfiducia si estende prima a tutti ai bond simili, vale a dire quelli ad alto rendimento ma appartenenti ad altri settori, e poi se la crisi degenera agli altri prodotti finanziari. Tutti i rendimenti di obbligazioni societarie rischiose statunitensi registrano già una tendenza al rialzo e sono tornati su livelli che non si vedevano da fine 2012. Oltre all’esposizione diretta c’è poi un altro canale attraverso cui la crisi dell’oil & gas potrebbe colpire il sistema bancario. Negli stati molto dipendenti dal petrolio la crisi potrebbe impattare sul reddito delle famiglie e tradursi in un aumento delle sofferenze anche per il credito al consumo e i mutui immobiliari. Secondo quanto scrive Royal Bank of Scotland Texas e Wyoming sono i due stati più in pericolo. Qui il settore petrolifero incide rispettivamente per il 19 e per l’11% del Pil. Seguono la Pennsylvania con il 7% e poi West Virgina, Oklahoma, Lousiana, Colorado, North Dakota, Illinois e New Mexico con quote intorno al 5%.

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