Or è qualche anno, che Niccolò Machiavelli constatava: “E veramente nelle città d’Italia tutto quello che può essere corrotto e che può corrompere altri si raccozza: i giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena di brutti costumi; a che le leggi buone, per essere dalle cattive usanze guaste, non rimediano. Di qui nasce quell’avarizia che si vede ne’ cittadini, e quello appetito, non di vera gloria, ma di vituperosi onori, dal quale dipendono gli odi, le nimicizie, i dispareri, le sette; delle quali nasce morti, esìli, afflizioni de’ buoni, esaltazioni de’ tristi.” Da allora, comunque, parrebbe che non molto sia cambiato: riecheggiano anzi attualissime le più antiche parole di Giovenale (Satire, I, 174): “… probitas laudatur et alget”, l’onestà dei costumi è lodata, ma muore di freddo.

Le cronache di questi giorni, sono popolate da epigoni di quel ser Cepperello, protagonista della prima novella del Decamerone. Costui, noto, altresì, come ser Ciappelletto, era un notaio che provava grandissima vergogna quando doveva redigere un documento autentico, infatti, faceva documenti falsi gratis meglio che chiunque altro a pagamento; diceva il falso per divertimento, sia quando era necessario per la sua professione, sia quando non lo era, e siccome allora in Francia si prestava gran fede ai giuramenti, aveva vinto molti processi giurando il falso, cosa che faceva senza nessuno scrupolo o preoccupazione; si divertiva inoltre e s’impegnava molto a far sorgere tra amici e parenti odi, scandali, inimicizie, e più ne scaturivano malvagità più era contento e divertito; invitato ad assistere ad un omicidio o a qualsiasi altro reato, vi andava di propria volontà senza mai negarlo, e più volte si trovò a ferire e uccidere uomini con le proprie mani, provandone un gran piacere; bestemmiava inoltre per ogni piccola cosa, poiché era la persona più irascibile che potesse esistere; non andava mai in chiesa, insultava i sacramenti con orrende parole e, al contrario, visitava volentieri e frequentemente le taverne e tutti gli altri luoghi disonesti; desiderava le donne come i cani le bastonate, mentre più che ogni altra persona provava piacere nell’andare con altri uomini; avrebbe rubato con astuzia e violenza, mettendosi gli stessi scrupoli che si mette un sant’uomo per fare l’elemosina; così goloso e amante del vino che spesso i suoi vizi gli procuravano orrendi malesseri, accanito giocatore e abile baro ai dadi.

Un Tartuffe, insomma, anticipato di parecchi secoli, con la differenza che Molière ne fa venire disgusto e ribrezzo, con l’intenzione di “concitare” gli uditori contro la sua ipocrisia, mentre Boccaccio ci si spassa, non già con l’intenzione di suscitare irritazione contro l’impostore, quanto piuttosto di ridicolizzare il suo buon confessore, i creduli frati e la credula plebe: Cepperello, inviato in Borgogna per riscuotere i soldi dei debitori di messer Musciatto, arrivato in città s’era ammalato gravemente, e i due usurai fiorentini che lo ospitavano temevano che la sua morte, avvenendo senza conforti religiosi, potesse scatenare l’ira dei Borgognoni contro gli italiani.

Per evitare ciò avevano dunque chiamato un frate (“alcuno santo e savio uomo”) per l’estrema unzione, agli occhi del quale Cepperello si mostrò come un “timorato di Dio” ed esente da ogni peccato. Dopo una lunga confessione, che ne aveva toccato ogni attimo della vita, tanto che Cepperello era stato costretto a volte ad improvvisare per non mostrare la sua vera indole, il prete “condonò” l’uomo dopo avergli impartito l’estrema unzione. Morto Cepperello, subito la sua figura venne innalzata e santificata dinnanzi ad un solenne funerale, come ultima beffa alla moralità cristiana. Esplicito, in proposito, è il commento di Panfilo: “esser possibile a lui esser Beato alla presenza di Dio… come che la sua vita fosse scellerata e malvagia… Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette”.

Capita pure che gli odierni eredi di ser Ciappelletto siano sempre più spesso dediti ad un abusato modello letterario: il racconto in prima persona, spontaneo o magari necessitato o forse addirittura coartato, in cui affermano che le cose narrate siano accadute, avendole loro percepite, o rievocano atti loro, cioè percezioni vissute o atti compiuti nella veglia psicofisicamente normale, ma anche scene oniriche, deliri, allucinazioni. Talvolta, il narratore, con una grossa personalità gigionesca, mette il pubblico in una condizione quasi d’ipnosi, dirottandone l’impegno emotivo su obiettivi esterni alle relazioni di potere, da cui quelle relazioni possano trarre giustificazione: la sua è una narrazione fitta di simboli potenti, la propaganda, ideologica matrice d’illusione, è continua e martellante, i mezzi di comunicazione di massa sono adoperati intensamente ed assiduamente a raddensare l’illusione e soffocare ogni manifestazione di spirito critico che possa dissiparla.

Talaltra, il narratore, magari un uomo al centro di una fittissima rete di relazioni in continua e ossessiva espansione, indossa invece i panni che furono del manzoniano Conte Zio, maestro nell’arte sottile della simulazione e dissimulazione, col suo “parlare ambiguo” il suo “tacere significativo”, il suo “lusingare senza promettere”, il suo “minacciare in cerimonia”. Con questi l’opinione pubblica non è spietata come il tribunale rabelaisiano dell’Isola di Sportello, in cui “si spenna(va) l’oca senza farla strillare”, anzi è addirittura sin troppo misericordiosa, sebbene, come di fronte a quello, si possa anche qui, ma impunemente, rispondere “su ciò che s’ignora”, confessare “d’aver fatto ciò che mai non si fece”, affermare “di sapere ciò che mai non si conobbe”… E viceversa.

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