“Missione compiuta. Lo abbiamo preso”. Così il presidente messicano Enrique Pena Nieto ha annunciato su Twitter l’arresto Joaquín Guzmán Loera, detto El Chapo, capo del cartello del narcotraffico di Sinaloa. Il “tarchiato”, questo il suo soprannome, era evaso (per la seconda volta) a luglio dello scorso anno attraverso un tunnel scavato nella sua cella nella prigione di massima sicurezza di Altiplano, nella città di Almoloya de Juárez, circa 90 km a ovest di Città del Messico.

Il re del narcotraffico era stato arrestato il 22 febbraio 2014 dalla marina messicana, dopo una latitanza durata tredici anni, in un hotel di Mazatlan, a circa 200 km da Culiacan, capitale dello stato di Sinaloa, mentre stava partecipando a una festa insieme alla moglie, l’ex miss Emma Coronel, e alle figlie gemelle. Per anni in cima alla lista degli uomini più ricercati dalla Drug Enforcement Administration americana (Dea), sulla sua testa c’era una taglia da cinque milioni di euro.

“El Chapo” era riuscito a evadere già una volta nel 2001, anche in quel caso con una tecnica più vicina alla scena di un film che alla realtà: nascosto dentro un furgone della biancheria, aveva attraversato la porta principale della prigione di massima sicurezza di Puente Grande.

Il Cartello di Sinaloa è tra i più sanguinari tra quelli che combattono la guerra della droga in Messico. Il regno di Guzman era esteso negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e in Europa. La sua organizzazione è stata la prima con una struttura criminale-imprenditoriale. E la prima a gestire direttamente la raccolta, il traffico e la distribuzione della cocaina, della metanfetamina e della marijuana che dal Sud e dal Centro America sbarca nei mercati di tutto il mondo. Guzman ha un patrimonio stimato attorno al miliardo di dollari e un curriculum criminale agghiacciante. Il tarchiato ha infatto ammesso di aver ucciso “due o tremila persone.

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