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Ma sei cristiano? Chiede l’avvocato dell’accusa. Cristiano praticante? Un po’, dice. Non molto. E per cultura norvegese, cosa intendi? Esita un momento. Poi dice: Tutto. Tutto quello che c’è in Norvegia. Dalle maniglie delle porte alle etichette della birra.

E’ il 22 luglio del 2011, ed è in difesa di questo, in difesa dei valori europei minacciati dall’Islam, dal multiculturalismo, che Anders Breivik parcheggia un furgoncino carico di esplosivo davanti alla sede del governo, in un paese così perfetto, e non abituato a certe cose, un paese così colto in contropiede che la polizia neppure chiude le strade: e lui, imbottigliato nel traffico, un elmetto in testa, ha tutto il tempo di raggiungere l’isola di Utøya, a 38 chilometri da Oslo, e sparare in mezzo a un campeggio di giovani laburisti.

Il primo elicottero che arriva non è delle teste di cuoio, ma della televisione. E sugli scogli, sui prati di Utøya, al tramonto, non restano che questi 69 telefoni che continuano a illuminarsi, intermittenti, ad accendersi e spegnersi, le suonerie staccate in un ultimo, disperato tentativo di non essere visti e uccisi – sullo schermo il nome del chiamante, mamma, mamma, mamma. Fino a quando le batterie non si scaricano.

Ma One of us non è un libro sulla Norvegia. E’ un libro sull’appartenenza. “O più esattamente, sul cercare un modo di appartenere, e non trovarlo”, è un libro sulla ricerca di identità, e di ascolto, e di attenzione – un libro sull’esclusione: e pensi solo che la nostra comprensione del terrorismo, e soprattutto, la nostra strategia per sradicare il terrorismo, sarebbe infinitamente migliore se solo avessimo una Åsne Seierstad a raccontare così ogni attentato di questi anni.

A ricostruire le madri, e certe biografie che sembrano trasmettersi ereditarie: con Anne Marie che imputa alla figlia Wenche la poliomelite contratta in gravidanza, come adesso Wenche accusa il figlio Anders del divorzio, dello sfascio della sua vita, e gli urla “Vorrei tu fossi morto” – ma anche a ricostruire i padri: che un giorno, semplicemente, scompaiono.

A ricostruire le famiglie. Le famiglie nascoste dietro le strade eleganti del West End di Oslo, della Oslo bionda e borghese in Lacoste e maglioncino girocollo: con i servizi sociali che intuiscono che qualcosa non funziona, e intervengono, più volte, ma alla fine concludono che l’unica cosa fuori dal normale è che una madre mandi il figlio di cinque anni a comprare la pizza da solo, “anche perché una pizza non è una cena molto nutriente” – e lasciano che quel bambino soprannominato Meccano Boy, perché era tutto rigido e spigoloso, quel bambino che sembrava non divertirsi mai, non trovare niente di bello nella vita, si trasformi in un bullo che tortura gli animali, e poi in un graffitaro in felpa con il cappuccio, e poi si ritiri da scuola, a sei mesi dagli esami di maturità, per diventare milionario, e intanto provi a costruirsi una carriera tra i conservatori del Progress Party, fino a quando la sua società che vende diplomi falsi viene scoperta, e fallisce: e Anders Breivik si chiude in camera sua davanti ai videogiochi.

Per cinque anni. E nessuno va a tirarlo fuori.

Leggi questo libro, e pensi solo che vorresti leggere un libro così per ogni jihadista di oggi. E avere una Åsne Seierstad a ricostruirti la società intorno – le mille volte che Anders Breivik è stato a un passo dall’essere scoperto: un passo dall’essere fermato, e salvato, mentre dai videogiochi passava ai siti contro l’Islam, contro gli immigrati, causa della decadenza di quella società da cui si sentiva escluso, quella Norvegia che detestava, e di cui voleva essere disperatamente parte, e iniziava ad accumulare fertilizzanti e attrezzatura militare, spiegando alla madre che aveva deciso di avviare un’azienda agricola: e la madre, nel vederlo in anfibi, elmetto, antiproiettile, con Anders che le confessa che è un po’ teso, che teme di essersi avventurato in una cosa troppo difficile, la madre gli dice: “Andrà tutto bene, tranquillo. Sarai un ottimo agricoltore”. O quando è rinchiuso in una cascina a fabbricare esplosivo, notte e giorno tra i fumi degli acidi, e i nuovi vicini lo trovano un ragazzo perbene, sempre in tiro. “Al più un po’ gay”.

Perché è una storia sempre in bilico, questa, come è in bilico Anders Breivik stesso, la sua mente – e il nodo, alla fine, è proprio questo: è pazzo o no? Uno che programma in dettaglio una guerra civile destinata a finire nel 2083, dopo l’esecuzione di tutti i traditori, e la deportazione di tutti i musulmani, e l’instaurazione del regime dei cavalieri dei Templari, di cui è il Sommo giustiziere, il nome che usava nei videogiochi – e uno così è un pazzo, no? Perché questa è l’unica cosa capace di rassicurarci: che non sia uno come noi. Come sa perfettamente anche lui, quando in aula sfida gli psichiatri secondo cui è incapace di intendere e volere, e dice: “Con i vostri criteri, tutti i preti sarebbero folli, perché sostengono di avere ricevuto la chiamata di Dio”.

Quello che fa più paura di Anders Breivik non è la follia, ma la lucidità. Il momento, durante il processo, in cui le vittime vengono ricordate una a una, e lui guarda a terra, e tace, “perché non voglio aggiungere altro dolore”, dirà in seguito. E la maestria di Åsne Seierstad è proprio quella di mantenere quest’ambiguità. Perché è un libro su uno di noi, questo: uno che come tutti, dipende da noi – e fa effetto leggerlo proprio in questi giorni di sbarchi, di sbarchi e attentati, mentre cammino per Oslo, per questi suoi quartieri di immigrati neppure lontanamente paragonabili alle altre periferie europee, Stovner, Furuset, tutti perfetti: e però sono vie deserte, non c’è un negozio, una vetrina. Una luce. Solo il rumore sinistro dei tuoi passi nell’aria fredda e ferma – e chissà cosa succede, intanto, dietro queste finestre.

“Per Grønland”? Chiedo. Diritto? La signora mi guarda perplessa: “Non so, dice. Non sono mai stata a Grønland. Diritto da qui comunque, dice, non c’è niente”.

Grønland inizia due isolati più avanti. E chissà com’è la vita, in questo momento, dietro le sue finestre.

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