La paralisi politica di Madrid da una parte, la crisi istituzionale della Catalogna dall’altra. Quasi dieci giorni dopo la Spagna si riscopre sempre più “italiana”, come avevano scritto ironicamente – ma non troppo – i giornali spagnoli all’indomani delle elezioni politiche. Il premier uscente Mariano Rajoy, leader dei popolari, è il primo nella storia democratica del Paese a non avere una maggioranza al Congresso dei deputati e si è avviato al secondo giro di colloqui con gli altri partiti, a partire da quelli emergenti, quelli che hanno “rotto” il sistema, Podemos di Pablo Iglesias da sinistra e Ciudadanos di Albert Rivera da destra. Ma Iglesias ha confermato il suo no, mentre Rivera non è andato oltre un’eventuale astensione a un governo di minoranza. Ma in questo caso sarebbe necessaria l’astensione anche del Partito socialista. Il Psoe, per voce del suo candidato e segretario Pedro Sánchez, ha però già escluso questa ipotesi. E quindi la situazione è praticamente paralizzata e tra pochi giorni finirà definitivamente sul tavolo del re Filippo VI: il sovrano spagnolo è chiamato a un ruolo inedito, dopo che per quasi 40 anni il padre Juan Carlos ha praticamente sempre “ratificato” il risultato delle elezioni.

Il Pp al Congresso ha 124 deputati su 350, il Psoe 90, Podemos 69, Ciudadanos 40. Gli altri 27 seggi sono andati a Izquierda Unida (2), agli indipendentisti catalani (18) e ai nazionalisti baschi (6) e delle Canarie (1). Anche l’ipotesi di un governo alternativa Psoe-Podemos (che attrarrebbe anche alcune forze autonomiste, sia basche che catalane) sembra per il momento difficilmente percorribile. Sia per i numeri: quota 176 deputati (la maggioranza) sarebbe comunque difficile da raggiungere e per giunta Ciudadanos ha detto che voterà contro un governo con Iglesias. Sia perché Podemos ha posto come condizione un referendum sull’indipendenza della Catalogna che i socialisti non vogliono (e su questo Sanchez si è speso più volte pubblicamente dando garanzie e rassicurazioni). Nel Psoe inoltre traballa la poltrona dello stesso Sanchez – che Iglesias oggi ha accusato di “fare teatro” – contestato dai baroni territoriali guidati dalla potente Susana Diaz, presidente dell’Andalusia, contrari a una alleanza con Podemos, che chiedono un congresso a fine febbraio. La Diaz potrebbe candidarsi a capo del partito, anche se lei ha negato di avere questo obiettivo.

E poi c’è il caos di Barcellona. La Catalogna del presidente uscente secessionista Artur Mas è sempre senza governo a tre mesi dalle regionali del 27 settembre. Le due liste indipendentiste di Mas (67 seggi su 135) – che vuole l’indipendenza per il 2017 – e degli anti-sistema di sinistra della Candidatura d’Unitat Popular (10) hanno la maggioranza assoluta nel parlamento di Barcellona. Ma i radicali della Cup finora si sono rifiutati di votare la rielezione del “borghese” Mas. Quello della paralisi è un modulo che si ripete fino alla base, così il simbolo è il risultato di un mini-congresso della stessa Cup riunito nei giorni scorsi: i 3.030 delegati si sono spaccati esattamente a metà, 1.515 per il sì a Mas, 1.515 per il no. In un’atmosfera sempre più da farsa tutto è stato rinviato al 2 gennaio. Una nuova umiliazione per Mas, simbolo della lotta per l’indipendenza, incriminato di “ribellione” dalla giustizia di Madrid. Alle politiche spagnole il partito di Mas ha subito una emorragia di voti, fuggiti verso Podemos. Se il 9 gennaio la Catalogna sarà sempre senza presidente dovrà tornare al voto. Forse nello stesso giorno in cui dovranno essere ripetute anche le politiche spagnole.

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