Dalla valutazione d’impatto ambientale alla prevenzione del dissesto idrogeologico, dalla mobilità sostenibile agli appalti verdi nella pubblica amministrazione, alla gestione e soprattutto riduzione dei rifiuti.

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Queste materie e altre ancora compongono il ricco carnet del cosiddetto “collegato ambientale”, la legge approvata in via definitiva dalla Camera pochi giorni fa e contenente “disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”. Il provvedimento è corposo e articolato; e sostanzialmente condivisibile, almeno nella direzione di marcia che inizia a tracciare.

Certo, rimangono degli “equivoci” di fondo in alcune materie cruciali. La citata mobilità sostenibile, per esempio, viene di fatto ritenuta sinonimo solo di incentivazione del, pur importante, sistema di car pooling, car sharing ecc. ecc., senza più neanche l’idea che il primo, serio, modo per provare a suscitare in un numero significativo di cittadini l’esotica suggestione di rinunciare, ogni tanto, a quella specie di protesi che è l’automobile sia quella di garantire trasporti pubblici decenti, specie in città. Con l’ulteriore, ovvia, conseguenza che diventa imprescindibile un piano di integrazione e modernizzazione del parco mezzi, cioè di acquisto di treni, tram e metro da parte dello Stato o, comunque, del settore pubblico.

Ancora, è evidentemente duro a morire l’occhio di favore verso il gigantismo energetico, con ulteriori, improvvidi, incentivi previsti a beneficio dei grandi impianti a biomasse. Al netto di simili “incongruità”, la valutazione del provvedimento in sé, lo si ripete, è complessivamente positiva.

I problemi reali stanno fuori dal collegato ambientale, nel più generale indirizzo di politiche ambientali di questo governo. Più precisamente, stanno nella reale compatibilità della gran parte delle misure contenute in quella legge con altre che concorrono a formare quel generale indirizzo che si richiamava.

L’idea di tornare al “vuoto a rendere”, prevista nel “collegato”, non è solo romantica, è anche, finalmente, espressione di una acquisita consapevolezza della necessità di ridurre alla fonte la produzione di rifiuti, a partire da misure apparentemente minime ma non per questo meno serie ed efficaci.

Resta, a questo punto, solo da capire come si leghi tutto questo alla nuova, brillante, alzata d’ingegno inceneritorista (di cui dà conto Il Fatto Quotidiano nel numero odierno) che sta producendo questo esecutivo, con la previsione di 9 nuovi impianti, che porterebbero il totale, su scala nazionale, addirittura a 55.

Per capire che l’idea della “economia circolare” e la conseguente pratica della raccolta differenziata non trova linfa vitale nella diffusione a macchia d’olio di inceneritori, non occorre esser particolarmente versati in questioni ambientali: basta conoscere appena il principio di non contraddizione.

Così come non sarebbero proprio oziose le domande che qualcuno potrebbe porsi sulla compatibilità, in sé, dello stesso concetto di “green economy”, con il geniale piano di trivellazioni dei mari di questo Paese, a partire dall’Adriatico, per estrarre le ultime gocce di un petrolio scadente. Piano che, nonostante l’annunciata retromarcia governativa sull’onda di una vasta e determinata mobilitazione popolare di opposizione che stava (sta) per sfociare in un referendum abrogativo, incombe ancora sulle politiche energetiche e ambientali del frizzante governo dei tweet.

Molti commenti ufficiali hanno ricondotto il collegato ambientale all’onda lunga della recente Cop 21, la Conferenza sul clima di Parigi. A parte i dubbi, non di poco conto, sull’effettività, dunque sulla reale efficacia, degli “impegni” assunti nella capitale francese dai Paesi del mondo (specie i più inquinanti) contro i cambiamenti climatici, forse sarebbe comunque meglio se la natura e la funzione di questa legge venissero ricollegate a un’altra notizia che ci è giunta “dall’Europa” meno di un mese fa: il rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (Aea) che ha accertato che nel 2012 l’inquinamento dell’aria ha causato 491.000 morti premature nell’Unione Europea; 84.400 dei quali in Italia.

Questo collegamento, probabilmente, può risultare più persuasivo, presso molti, sulla necessità che, qui e ora, cambino radicalmente le politiche ambientali, il che vuol dire le politiche economiche tout court, di questo Paese. Perché quando si invocano interventi per l’ambiente la posta in gioco non è “solo” il contrasto di eventi climatici “lontani”, che da queste parti possono, in talune espressioni, risultare addirittura suggestivi (le mimose fiorite a Natale).

Quando si parla di ambiente, di inquinamento ambientale, si parla, direttamente e brutalmente, di salute e di malattia, di vita e di morte di decine di migliaia di persone in queste società. Forse, messa così, la questione ecologica può suscitare un po’ di sensibilità in più da parte di governanti e governati italiani.

Per molti dei quali, stanti i livelli medi di etica pubblica che connotano questo Paese, non è affatto escluso che, in materia di obbligo di tutela dell’ambiente, valga davvero la candida domanda che si poneva Groucho Marx: “Perché dovrei preoccuparmi per i posteri? Cos’hanno fatto loro per me?”

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