Quel che rimane del Natale, gli operai della Saeco lo festeggiano davanti alla loro fabbrica, senza spostarsi nemmeno un minuto, guardando la legna che brucia in bidoni di lamiera e bloccando ogni camion che tenta di oltrepassare i cancelli. Fa freddo a Gaggio Montano, sulle montagne che uniscono l’Emilia e la Toscana. Soprattutto di notte. Ma poco importa, perché “il presidio non si abbandona – racconta Carlo, lavoratore Saeco da una vita, mentre si scalda le mani con una tazza di caffè – bisogna resistere un minuto più di loro”. Fino a oggi, qui, molte famiglie della valle hanno vissuto grazie alla storica azienda di macchinette del caffè. Ed è per questo che ora non si rassegnano alla notizia di 243 esuberi, su 558 operai. Praticamente uno su due. “Se non si torna indietro qui è una catastrofe, la montagna muore”. Lo sanno i sindaci dell’Appennino, lo sanno i commercianti e i cittadini, e perciò tutti danno una mano, tutti contribuiscono a tenere vivo il presidio davanti ai cancelli di via Torretta 240.

Video di Giulia Zaccariello

 

C’è Laura, che taglia a fette i panettoni donati da un negoziante della valle: al collo indossa una sciarpa rossa che recita “La Saeco non si tocca”. E’ giovane, ma ha già 15 anni in azienda alle spalle, e fino a qualche tempo fa era convinta che in via Torretta avrebbe lavorato fino alla pensione. Ci sono i commercianti dell’Alto Reno, che portano agli operai qualcosa da cucinare, chiudono i negozi quando si organizzano i cortei, e boicottano i prodotti Philips per lanciare un messaggio. “Perché le multinazionali non possono essere i padroni del mondo – dice Paolo, della Gt Service di Gaggio, negozio di elettrodomestici, che dal 26 novembre ha cancellato tutti gli ordini di prodotti a marchio olandese – dobbiamo combattere, e salvare le nostre aziende. Non possono continuare a venire in Italia per portare via tutto ciò che di meglio il nostro Paese, a livello manifatturiero, ha da offrire”. E c’è Katia, che si sfila i guanti per sistemare le lucette colorate appese alla tenda bianca che fa da sala mensa. E’ montata di fronte all’ingresso della fabbrica, e dieci passi più in là 243 tazzine appoggiate ordinatamente a terra raccontano la storia di un inverno maledetto.

Era il 26 novembre quando la multinazionale Philips, che si è comprata il marchio italiano nel 2009, per poi iniziare a spostare la produzione in Romania, dove la manodopera costa meno, ha annunciato che la metà del personale che oggi lavora a Gaggio, quella che assembla le macchine per il caffè a uso domestico, sarà lasciata a casa. E’ la crisi, dicono gli olandesi, le vendite sono calate. Produrre nell’Europa dell’Est conviene. Così l’Italia rischia di perdere l’ennesimo stabilimento Made in Italy. E la montagna dell’Alto Reno, sopra Porretta, gioiello termale che oggi pure sconta il prezzo della recessione, l’ultimo polmone occupazionale della vallata. Una condanna che l’Appennino bolognese non può permettersi. Per questo il presidio degli operai Saeco è diventato subito il presidio di una comunità.

Si organizzano concerti, proteste, si cerca di fare appello alle istituzioni. Si cuciono magliette rosse – il rosso della divisa Saeco, non quello del Natale – l’una legata all’altra, 243, quanti sono gli operai che rischiano il posto di lavoro. “E’ un flash mob – spiega Carlo, indicando la distesa di magliette sistemate lungo la collina che scivola alle spalle dello stabilimento, disposte in fila come fossero una lunga bandiera – ognuna di esse simboleggia uno di noi, che nel 2016 potrebbe essere licenziato. Siamo tutti a rischio, nessuno qui si sente sicuro. E’ una gran brutta sensazione, in un’Italia così, piegata dalla crisi e dalla disoccupazione. Perché lo sappiamo tutti che se dovessimo rimanere a casa, difficilmente troveremmo un posto come questo”. Carlo quest’esperienza in famiglia l’ha già vissuta. Sua moglie era un’operaia Saeco qualche anno fa, nel 2008, quando a Gaggio c’era più lavoro e la Romania era solo un altro paese. Poi, però, iniziato il calo della produzione di macchinette in Italia, anche il personale di via Torretta è diminuito, e lei, interinale, è stata lasciata a casa. “Non ha più trovato un lavoro fisso, dopo, solo impieghi saltuari. Ed ecco perché siamo qui, invece che a casa, radunati attorno a un albero di Natale: il lavoro è tutto. E va difeso”.

Ciò che è chiaro a tutti, in montagna, è che sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico, a Roma, dove si tratta per convincere la Philips a ritirare i licenziamenti, non c’è solo la questione occupazionale. “Se Saeco chiude – sottolinea Francesca, titolare del bar Centrale, in piazza a Gaggio – la vallata la segue a ruota”. E’ questa la partita che si gioca oggi: il futuro. La Saeco, fondata nel 1981 da Sergio Zappella e Arthur Schmidt, è sempre stata uno dei pilastri dell’Appennino bolognese. Ai tempi d’oro occupava 1.500 operai, e assieme ad altri colossi industriali, tutti in crisi – la Metalcastello spa, la Demm di Porretta, o le stesse terme, frequentate già in epoca romana, tra gli ospiti illustri Lorenzo il Magnifico, Niccolò Machiavelli e Gioacchino Rossini – era uno dei principali bacini occupazionali della zona. “Era la fabbrica dove avrebbero trovato lavoro i nostri figli – sospira Antonietta, operaia Saeco da 30 anni e prima ancora, lavoratrice delle terme di Porretta– ora, invece, non sappiamo se chiuderà, portando con sé l’intera vallata”.

“Ciò che fa più male è il tradimento della fiducia – racconta Stefano Zoli, della Fiom di Bologna – la Philips aveva detto che se avessimo migliorato determinati indicatori di produzione avrebbero incrementato i volumi produttivi, e invece siamo qui, a parlare di licenziamenti. E pensare che fino a un mese fa l’amministratore delegato Nicholas Lee diceva che tutto andava bene”.

Seduti sui gradini dell’ingresso della fabbrica, Carlo, Laura, Raffaele e tutti gli altri, gli operai vestiti di rosso, non possono dimenticare quella sensazione allo stomaco che il 26 novembre si è lasciato alle spalle. “Stavamo lavorando quando è arrivato l’annuncio: 243 di noi sarebbero stati licenziati – ricorda Rudi Pesci, operaio Saeco dal febbraio del 1990 e rsu della Fiom – definirla una doccia fredda non basta: è stato uno shock. Peggio di un terremoto. Siamo usciti, e ci siamo radunati qui, davanti ai cancelli. Non ci siamo più spostati”.

E non hanno intenzione di farlo. Non finché non si parlerà di salvaguardia dei posti di lavoro. Così il Natale ha il sapore di un caffè amaro, preparato dentro a un gazebo che non riesce a scacciare il freddo dell’inverno. “Le feste? Le feste la Philips ce le ha portate via – alza le spalle Giusy Benni, operaia Saeco anche lei – eccolo qui il nostro Natale, in fabbrica, a difendere il nostro posto di lavoro”.

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