Il Public Policy Polling (PPP), all’interno di uno dei suoi consueti sondaggi rivolti all’elettorato statunitense, ha chiesto agli americani di esprimersi relativamente alle seguente “questione” di politica estera.

Una monarchia mediorientale, un tempo pacifica e prospera, si trova sotto il controllo di un ex ministro che ha rovesciato il sovrano e instaurato un proprio regime dittatoriale: le sue tendenze megalomani ora minacciano di destabilizzare l’intera area, dato che forze occulte non bene identificabili sembrano sostenere i suoi piani. Il PPP chiede dunque se Washington debba rispondere o meno alla minaccia costituita dal tiranno, bombardando le roccaforti del nuovo regime.

Un terzo degli elettori repubblicani sostiene l’intervento, il 50 per cento si dice indeciso mentre solo il 10 per cento si dice contrario. Più cauta invece la posizione degli elettori democratici, favorevoli ai bombardamenti solo per il 20 per cento e contrari per quasi il 40 per cento.

Con l’avvicinarsi delle presidenziali americane sondaggi del genere costituiscono la norma. La peculiarità di questo studio, tuttavia, è che il paese mediorientale verso il quale si chiede l’intervento armato è nientemeno che Agrabah, un regno presente solo nello scenario fantastico del celeberrimo colossal Disney “Aladin”, ispirato all’omonima fiaba de “Le Mille e una Notte”.

Il PPP ha infatti inserito, tra le altre domande relative ai principali temi di dibattito su cui si confrontano i candidati presidenziali, se l’elettore fosse “favorevole, oppure no, a bombardare Agrabah”. Gli sconcertanti esiti del sondaggio, al netto dell’ilarità generale, stanno scatenando polemiche infuocate, soprattutto per il candidato Donald Trump e le sue posizioni apertamente critiche nei confronti dell’Islam (col risultato che il quaranta per cento i suoi sostenitori sostengono l’eventuale annientamento della città di Aladdin).

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D’altra parte per quanto l’intento del PPP, di posizioni democratiche, fosse mettere in difficoltà l’ascesa elettorale di Trump, non rimane che portare la riflessione oltre il dibattito politico americano e chiedersi se sia possibile che una così grossa fetta degli elettori della prima potenza mondiale sia tanto ignorante sul mondo che li circonda da esprimersi seriamente sul se, e sul come, bombardare o no un paese di fantasia.

Molto probabilmente risultati simili si sarebbero ottenuti anche altrove, ma ciò non può consolare di fronte al fatto che la stessa massa elettorale incapace di distinguere se un paese esiste per davvero oppure no chiede, anzi pretende, di influenzare l’agenda politica internazionale per il proprio Paese.

Fino al 1918 la diplomazia era segretamente custodita dai governi e gestito da specialisti. Persino nei paesi democratici di allora l’opinione pubblica si limitava ad esprimersi in merito a decisioni già prese. Dopo la Prima guerra mondiale, la “diplomazia segreta” venne accusata d’esser responsabile dell’escalation di violenza tra gli Stati europei che condusse al macello di milioni d’uomini nelle trincee. Il presidente americano Wilson mise come primo tra i suoi “quattordici punti” la pubblicità per ogni singolo trattato internazionale dopo altrettanto pubblici dibattiti tra le nazioni, imponendo sostanzialmente la democratizzazione della diplomazia.

Oggi può sembrare perfettamente legittimo che uno Stato democratico lasci che siano i cittadini a discutere e decidere sulla politica estera. I Wikileaks rilevati da Edward Snowden sono stati definiti come “scandalosi”, nonostante non siano altro che informazioni riservate da parte dei governi dei singoli paesi. All’elettore contemporaneo non piacciono i segreti. La policy da adottare deve essere trasparente e risultato di un mutuo accordo. Non soltanto la gestione dei rapporti con le potenze estere, ma anche quando si tratta di fare un certo tipo di valutazioni che normalmente sono affidata a qualche pugno d’esperti (e non al “potere sovrano”).

Bombardare Agrabah” ci invita tuttavia a riflettere su quanto l’elettorato, preso nel suo complesso, sia davvero in grado di prendere decisioni assennate di politica estera, dove in palio ci possono essere milioni di esistenze sconvolte (se non annientate) da un eventuale conflitto. La colossale ignoranza nel non saper distinguere tra Raqqa, Damasco e Agrabah impone di domandarsi se, in fondo, il grado di conoscenza attuale dell’elettore occidentale scolarizzato circa il mondo contemporaneo non sia in fondo equiparabile a quello del suo antenato analfabeta di un secolo prima.

Il potere implica le responsabilità (sempre restando in tema cinematografico), e se il cittadino non vuole che la decisione tra guerra e pace venga presa in qualche oscuro ufficio ministeriale per cominciare dovrebbe, perlomeno, sapere se desidera o meno attaccare un paese reale o il cofanetto dvd nel suo salotto.

Mirko Annunziata

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