Alle porte di Verona, nei pressi della stazione ferroviaria, vi darà il benvenuto un grande albero di Natale con gli auguri di un’industria dolciaria. Ma se farete attenzione, avvicinandovi un pochino nel traffico che in questi giorni soffoca in modo vergognoso la città, scoprirete che l’albero non esiste. E’ finto, e finti sono molti degli alberi che addobbano le strade pubbliche cittadine. Meglio così, alberi risparmiati al sacrificio del pubblico focolare natalizio, ma la rappresentazione rimanda a ben altre scadenti finzioni di cui sorridere.

Piazza Navona Natale 675

Nel tempo di Natale, di presepi e luci, per il vero cristiano inizia l’agonia per una celebrazione spirituale e di festoso raccoglimento trasformata nel festival dell’opulenza e del mercimonio, con luccicanti e spesso patetiche messe in scena. Ma il periodo natalizio è solo il fisiologico acuirsi di un disagio ormai cronico, la cui ossessione apologetica del desiderio imposto dal mercato mortifica e ottunde i molteplici livelli dell’esistenza. Osservare per inerzia le varie drammaturgie di questo grande teatro natalizio è uno spettacolo nel pur patetico spettacolo.

A teatro si va per esserne consapevolmente ingannati: è una sorta di patto tra drammaturgo, regista, attori e spettatore. In una buona messa in scena, grazie a simboli e parole create ad arte, possiamo trasfigurarci in meglio, siamo indiretti complici di una possibile illuminazione e di uno svelamento, di un dono di “verità” in cui, per rispecchiamento, si possono trarre potenziale coscienza di libertà sopite, intelligenza smorzata dalla routine, spunti esistenziali in grado di provocare il nostro essere molteplice. Insomma, con l’arte possiamo diventare persone migliori. La sostanza di quel dono giunge per vie segrete e misteriose: il dialogo avviene per sublimazioni da vedersi in filigrana, con la ragione calcolante relegata e disorientata nelle retrovie dell’essere.

Ora, nella confusa marea delle rappresentazioni, sfaccettate, polimorfe, creature dell’analisi di mercato, è un po’ tutto sottoposto al sottile gioco dell’inganno al contrario, il peggiore. Ovvero: ricoprire, mistificare, edulcorare, esagerare o minimizzare messaggi sottoposti ad una foga estetizzante e sempre artificiosa da gravity market, per una corsa al cash flow dove il desiderio è sempre particolare e diventa frammento isolato dal tutto. Imbarazzante invece specchiarsi nelle nostre miserie, nelle verosimiglianze più inquietanti perché quelle sono prerogativa della morbosa cronaca nera, del disturbante.

Il pericolo e il rischio, condizione umana imprescindibile per la vita stessa, va espulso, liquidato in un delirio securitario che accalappia voti di paura e perpetra consumatori disciplinati e ottusi. L’illuminazione, la ribalta, rimane parvenza e rimanda ad un’altra realtà, più affascinante di quella reale e alla quale, come a tutte le seduzioni ingannevoli, va corrisposto un determinato comportamento a scapito del sedotto: “Se le persone non trovano quel che desiderano, si accontentano di desiderare quello che trovano.” (Guy Debord). E che cosa troviamo?

Il teatro e il cinema inseguono disperatamente il quotidiano sul terreno della finzione sottratta loro dalla realtà, con il risultato che le creazioni sono oggi più o meno di due tipi. O espliciti e crudeli nell’offrire esperienze dissonanti e sconcertanti (nel bene o nel male), in un fanatismo di verità senza scampo, o più artificiali del finto con il risultato di una divertente e triste parodia. Ma forse per ciò, da questo attrito, fioriscono anche produzioni di meraviglia assoluta che non troverete nel mainstream dei media, ma che vanno cercate con perseveranza tra le tendenze minoritarie e poco commerciali.

Il marasma contribuisce a un’opportunistica confusione: per esempio, celebrare da artisti “impegnati” il 40° della morte di Pasolini e poi nel quotidiano agire da squalo non fa ormai alcuna differenza. L’importante è il tributo, tanto poi nessuno farà caso se lor signori/e praticano davvero il mondo simbolico pasoliniano evocato con commozione. Pasolini, buon calciatore, ne avrebbe presi a pedate in culo parecchi dei signori celebranti. E non per manifesta incoerenza, ma per un vomitevole e malcelato senso dell’opportunismo da parte di personaggi con il didietro ben assestato nel burro, propensi alla cortigianeria e pronti a sguazzare per qualche soldino e tanta vanità dentro a ciò di cui si proclamano alternativi.

Le attenuanti ci sono: il mercato, grande e ineffabile regista, ha indotto comportamenti via via inverosimili, spersonalizzanti. Le parole, si sa, non testimoniano più il loro significato e i il loro senso snaturato, una vera e propria epidemia. E’ diventato naturale ascoltare un politico, un amministratore della cosa pubblica e non credergli/le, non credere alle banche (e ci mancherebbe), né alla stampa, né alla destra né alla sinistra, al centro, contenitori senza contenuti che non esistono più. Forse diffidiamo perfino di ciò che noi stessi affermiamo. In questa logorroica afasia le parole ormai significano sempre di più “qualcos’altro”. I luoghi e le persone in cui ho sentito più aderenza e corrispondenza tra parole/affetti/cose sono il carcere e l’ospedale psichiatrico. Lì nessuno deve vendere niente, non c’è nessuna eccellente reputazione da difendere, ormai ben poca vanità: attori e attrici in grandezza naturale che forse avrebbero dignitosamente celebrato Pasolini senza poi implorarne la misericordia.

Ci sveglieranno gli artisti e i poeti in ogni attività, l’ardua impresa sarà distinguerli e scorgerli in un orizzonte traboccante di stimoli e finzioni, di sentirli tra la calca delle chiacchiere e dei rumori. Buon Natale!

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