Sull’autobus diretto alla Barceloneta c’è fermento. Si parla delle prossime elezioni. C’è anche la signora Ines. Cerca di convincere gli altri a non andare alle urne il 20 dicembre. Ha un ciondolo d’oro al collo, rappresenta la Catalogna. Lo mostra con orgoglio; lei non si riconosce nello Stato spagnolo e per questo non le interessa nulla di quello che accadrà a Madrid. Come lei molti altri si stanno ponendo il dilemma se partecipare o no alle prossime consultazioni elettorali. Un voto che divide anche le giovani coppie, come Cristian e Alba. Entrambi favorevoli all’indipendenza, non hanno però la stessa idea su come comportarsi domenica. Al tavolo di un ristorante discutono animatamente: “Io andrò a votare anche se non mi sento rappresentata dalla politica spagnola – dice Alba – perché l’astensione è sinonimo di indifferenza proprio nei confronti di chi, mio malgrado, deciderà anche del nostro futuro come catalani”. “Proprio perché sono catalano non ci vado”, ribatte Cristian.

Una questione sentita non solo per le strade, ma anche al Palau de la Generalitat de Catalunya, dove ha sede il governo catalano. Artur Mas, presidente ad interim e leader del partito pro-indipendenza Junt pel Sì, sta facendo una campagna a favore del voto. Secondo Mas nessun partito sarà in grado di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi e questa frammentazione può essere un buon asso nella manica per la Catalogna. Posizione confermata anche dal sindaco della capitale catalana Ada Colau Ballano, eletta nelle liste di Podemos, che proprio in questi giorni ha affermato che Madrid può tornare ad essere anche la capitale dei catalani. A loro avviso, più debolezza a Madrid vuol dire maggiore potere di negoziazione per Barcellona. Non la pensano allo stesso modo i rappresentanti del partito secessionista Cup (Candidatura d’Unitat Popular) che hanno un’idea chiara: boicottare le urne per lanciare un messaggio di sfida a tutti i partiti.

Una cosa è certa, chiunque vinca le elezioni non potrà ignorare le centinaia di “esteladas”, le bandiere che inneggiano all’indipendenza catalana, che sventolano ovunque a Barcellona.
Dagli ultimi sondaggi emerge che l’attuale premier, il conservatore Mariano Rajoy, difficilmente otterrà una maggioranza tale da permettergli di governare da solo. Il leader del Partido Popular dovrà probabilmente stringere alleanze con altri partiti, primo fra tutti l’emergente Ciudadanos guidato da Albert Rivera. La rottura del bipartitismo, che ha caratterizzato la politica spagnola dalla fine della dittatura franchista, potrebbe aprire degli scenari imprevedibili facendo assumere alla questione catalana un peso del tutto nuovo.

Se il partito conservatore del premier Mariano Rajoy, fortemente centralista, non ha mai teso la mano alla Catalogna, altri tra cui Podemos si sono dimostrati più aperti a un dialogo.
Per Pablo Iglesias, ad esempio, la Spagna deve cambiare e riconoscere la propria natura plurinazionale. Anche se questo non ne fa un fautore dell’indipendenza, il numero uno di Podemos è tuttavia convinto che si possano creare spazi di maggiore autonomia.

I catalani però sono stanchi di ascoltare promesse. In molti avevano creduto alle parole dell’ex premier socialista Luis Zapatero, che aveva inizialmente appoggiato un nuovo statuto regionale che prevedeva competenze più estese, oltre al riconoscimento della “nazione” catalana. Speranze tradite quando nel 2010 il testo, approvato in Parlamento, venne poi cassato proprio nelle sue parti più importanti dalla Corte Costituzionale, nonostante fosse anch’essa a maggioranza socialista. Recentemente, complice la crisi economica, molti catalani hanno abbandonato il partito socialista diventando, anno dopo anno, sempre più orgogliosi della loro identità culturale. Rosa, impiegata all’Università di Barcellona, non sopporta più l’arroganza di Madrid: “Io non avrei mai pensato di volere l’indipendenza, ma ora non vedo alternative” dice.

I catalani vanno avanti nonostante il muro della Corte Costituzionle spagnola che impedisce loro di tenere un referendum sull’indipendenza. A sentire l’opinione della classe dirigente economica sembra che la strada verso l’indipendenza sia spianata. A farne le spese sarebbe solo Madrid che secondo Joan B. Casas, presidente del Collegio degli economisti della Catalogna, subirebbe uno shock se dovesse perdere questa ricca regione. La Catalogna con il suo Pil da 200 miliardi di euro vale il 20% del prodotto interno lordo spagnolo e contribuisce a oltre il 25% delle eportazioni nazionali.

Quello che da anni chiedono i catalani al governo centrale è una gestione diretta del gettito fiscale, come già avviene in un’altra comunità autonoma spagnola. “Madrid ha risolto l’annosa questione dei rapporti con i Paesi Baschi garantendo loro una maggiore autonomia per quanto riguarda la gestione della politica tributaria – spiega Daniel Faura, economista. Noi invece abbiamo ricevuto solo porte in faccia e ormai la cosa migliore è che ognuno vada per la propria strada”.

Il popolo catalano è però molto pragmatico. “I 72 deputati indipendentisti eletti a settembre al parlamento catalano vogliono aumentare il potere di negoziazione della Catalogna – spiega Ferran Pedret, deputato socialista (Psc) al Parlamento catalano – alzando la posta in gioco”. Dai dati diramati dal Collegio degli economisti della Catalogna risulta che, dalla rottura del legame con Madrid, Barcellona guadagnerebbe ben 16 miliardi di euro all’anno. Soldi che provengono dalle imposte pagate dai catalani ma che non rientrano in “patria”. Un patto fiscale considerato iniquo che ha contribuito, secondo molti economisti, ad ingrossare il debito della Generalitat che ammonta a circa 66 miliardi di euro.

Questo deficit fiscale ha inciso molto sull’economia catalana in termini di sviluppo e di welfare. “La Catalogna è stata costretta a tagliare sull’istruzione e sulla sanità” dice Oriol Amat, professore di economia finanziaria all’università Pompeu Fabra di Barcellona e deputato di Junt Pel Sì al parlamento catalano. “Oltretutto – continua Amat – siamo stati privati della possibilità di investire in opere infrastrutturali fondamentali per la nostra Nazione”. “È chiaro che se l’entrata fiscale fosse migliore, si potrebbe convivere tutti in modo migliore” dice ironico il president Joan B. Casas. Al di là delle strategie politiche, chi domenica vincerà le elezioni potrebbe avere l’ultima, anche se “costosa”, opportunità per risolvere una questione aperta fin dagli anni ‘70.

di Antonella Spinelli e Nicole Di Giulio

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