Ieri un detenuto è evaso dal carcere di Bollate. Ancora non è chiaro come abbia fatto, lo scopriremo nelle prossime ore. Il Sappe, Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, ha subito gridato contro il modello di detenzione che si pratica nel carcere milanese: un modello aperto, dove i detenuti non vivono nell’ozio delle proprie celle, dove si dà loro fiducia e li si responsabilizza. Il Sappe non racconta che questa fiducia è nella stragrandissima maggioranza dei casi ricompensata e che l’episodio di ieri costituisce un evento sorprendentemente anomalo. Non racconta che una ricerca condotta negli scorsi anni da Giovanni Mastrobuoni dell’Università di Essex e da Daniele Terlizzese dell’Einaudi Institute for Economics Finance e commissionata dal Sole 24 Ore con la collaborazione del Ministero della Giustizia ci ha dimostrato attraverso analisi scientifiche dei dati che in un ambiente come quello di Bollate la recidiva cala vistosamente. Vale a dire, la probabilità che a fine pena i detenuti tornino a delinquere è ben inferiore e se tutte le carceri fossero gestite come è gestita Bollate la società esterna sarebbe più sicura.

Foto carcere 675

Usare un singolo episodio di cronaca per portare acqua alle proprie tesi è ingiusto. La retorica sul carcere ha quasi sempre vissuto di simili atteggiamenti comunicativi. E quali sarebbero le tesi di chi chiede un cambio di gestione a Bollate? Che “le carceri sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi antiscavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza delle carceri”. I sistemi antiscavalcamento: come se vivessimo a Topolinia, dove ogni giorno la Banda Bassotti annoda le lenzuola per calarsi dalla finestra e la fa in barba al Commissario Basettoni.

Il Sappe sa bene che in Italia abbiamo quasi un poliziotto penitenziario per ciascun detenuto, un tasso totalmente fuori scala se confrontato con la media europea. Negli ultimi anni l’Amministrazione Penitenziaria ha meritevolmente avviato un processo di trasformazione della vita quotidiana nelle carceri, un processo che punta a guardare ai poliziotti penitenziari non più solo come apritori e chiuditori di cancelli ma come persone che svolgono un ruolo chiave nel percorso di reintegrazione sociale del detenuto, prendendo parte alla vita del carcere e all’organizzazione delle attività interne. L’agente di polizia è in questo modo valorizzato e il suo lavoro diventa ben più gratificante. Il mese scorso la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti Civili (Cild) ha conferito il Premio annuale Libertà Civili per il dipendente pubblico proprio a un poliziotto del carcere di Bollate, per il suo impegno esemplare nel modo di interpretare il proprio ruolo.

Non facciamo che quanto accaduto ieri a Bollate ci faccia tornare indietro su questo cammino. Il Sappe scrive che “le idee e i progetti dell’Amministrazione Penitenziaria, in questa direzione, si confermano ogni giorno di più fallimentari e sbagliati”. Non è vero. Un singolo episodio, al quale si saprà far fronte, non può sconfermare scelte profonde nella gestione delle nostre carceri. Scelte che si fondano sulla consapevolezza del rispetto che dobbiamo a ogni essere umano, libero o detenuto che sia, e sulla convenienza sociale di un carcere più aperto.

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