In effetti il verso un po’ cambiato lo è. Prima quelli che comandavano un Paese in cui era tutto sbagliato e tutto da rifare erano fuori. Ora, invece, quelli che guidano il Paese verso il futuro e l’avanguardia sono tutti dentro. Prima, ai tempi dello slogan “Prossima fermata Italia” del 2010, svolazzavano i sogni di una terra promessa, oggi tutto intorno c’è un presente che bussa alle porte, carico di novità, cose fatte, cose belle. La ruspa buona – sarebbe stato un ottimo hashtag, averci pensato prima -, quella contro la “vecchia politica”, le “stesse facce da vent’anni”. Chissà se ci sarà anche quest’anno Dario Franceschini alla Leopolda numero 6, la seconda da quando il capo è anche presidente del Consiglio. Di certo non ci sarà Ignazio Marino che lo scorso anno, alla ex stazione di Firenze, rideva beato alle battute di Matteo il Mattatore mentre paragonava i “professoroni” anti-riforme ai vecchietti che guardano i lavori nei cantieri (e no, Marino non era imbucato).

Se un tempo era inattaccabile la tesi della “tempesta di pensieri” per disegnare un’Italia migliore – ciascuno al microfono per 5 minuti, ciascuno a portare in dote una parola – oggi il tempo, di fuori, sembra meno assolato delle altre volte: non perché è cambiato il mondo, ma perché forse è cambiato qualcosa dentro. Le parole e i “vorrei” da un anno e mezzo si sono fatti potere e in qualche caso spoils system, della prima ora o dell’ultima, per convinzione o entusiasmo tardivo. Non sarà il congresso di un partito, ma è la partecipazione alla visione di un mondo che cerca di inglobare, “evangelizzare”. Ci sono perfino due nuovi conduttori, due “leopoldini” (e per questa definizione se la devono prendere con il presidente del Consiglio): il 38enne Ciro Buonajuto, sindaco di Ercolano (che aveva lo zio sindaco di Ercolano e il nonno sindaco di Ercolano), e Ottavia Soncini, vicepresidente del consiglio regionale dell’Emilia Romagna, la continuazione di Delrio con altri mezzi. “Il programma è molto fluido – dice uno dei Nuovi Renziani, ex dalemiano, ex montiano, il deputato livornese Andrea Romano – Matteo Renzi aprirà e chiuderà”.

Aprirà ad altri Nuovi Renziani, come Giuseppe Sala, candidato in pectore a successore di Giuliano Pisapia, ulteriore segno che una stagione è ormai superata. Nel frattempo non si sentirà nemmeno l’eco della manifestazione dei risparmiatori aretini fregati dal casino della Banca Etruria: avevano chiesto di protestare di fronte alla Leopolda, ma la questura non gliel’ha permesso. La Leopolda, d’altra parte, dice Renzi, è “come sentirsi a casa”, “dove tutto è cominciato”, “un luogo dell’anima”, dove “sono di casa le idee, i sogni, anche le critiche”, ma solo con il permesso: 4 ministri risponderanno “in question time alle critiche e alle domande”.

Intorno al palco di Firenze senza bandiere del Pd epperò “è da sempre una casa della politica, non dell’antipolitica” (Renzi, due giorni fa), con il titolo (Terra degli uomini) che è un libro di Saint-Exupery, ma anche una canzone di Jovanotti (apostolo di prima categoria), si potrebbero vedere in ordine sparso quattro ministri tra cui l’organizzatrice dell’evento Maria Elena Boschi e Graziano Delrio, Giorgio Gori è diventato sindaco di Bergamo, Antonio Campo Dall’Orto che nel frattempo è diventato direttore generale della Rai, Debora Serracchiani che ora è vicesegretaria del partito, il presidente del Coni Giovanni Malagò, la futura guida del Cern Fabiola Gianotti (presenza poi smentita dall’ufficio stampa), Flavia Pennetta eroina di Flushing Meadows (per la quale Renzi si prese una selva di proteste per essere volato a vedere la finale negli Stati Uniti con l’aereo presidenziale). Qualcuno di loro è in forse, qualcun altro non ha ancora risposto, altri ancora invece hanno già declinato l’invito, sottraendosi alla tendenza “totalizzante”. Tra questi anche quelli ai quali Renzi non fa mancare mai il suo tweet: Federica Pellegrini, per dire (“Io ad eventi politici? Assolutamente falso”), ma anche l’astronauta Samantha Cristoforetti che ha detto di avere impegni personali.

Fa effetto vedere chi invece si è sfilato, anno dopo anno. Figurarsi che le prime edizioni erano condotte in coppia con Pippo Civati che giurava ai leader del partito che “no, non usciremo dal partito”. L’ultimo, “per impegni istituzionali”, è il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino, uno dei primi “vecchi” a sostenere la corsa di Renzi alla guida del Partito democratico. Nelle stesse ore il collega governatore della Puglia Michele Emiliano ha detto di avere “un’ottima scusa per non andare (la conferenza sul clima a Parigi, ndr). E nel weekend sto con i miei figli”. Poi uno dei padri del Pd, Arturo Parisi, che ogni tanto alza la testa per scongiurare di non bistrattare troppo le sue primarie. E l’economista Luigi Zingales che nel frattempo non solo ha provato a fondare un partito tutto suo (Fare, quello con Oscar Giannino) e poi ha lasciato dopo un annetto il cda di Eni, dove il governo lo aveva messo. Il presidente della Toscana Enrico Rossi andrà, forte di una sorta di patto di non belligeranza e autonomia che infatti gli fa dire che allora una Leopolda se la fa anche lui, addirittura pronuncia la parola povertà e infine insiste che hanno ragione Pisapia, Doria e Zedda quando dicono che bisogna rimettere insieme i cocci del centrosinistra.

Sarebbe acqua fresca, secondo il linguaggio usato fino a oggi. Invece diventa spray urticante visto che il più renziano dei renziani, il sindaco di Firenze Dario Nardella, il mini-Matteo, nel giorno dell’inizio della convention (chissà se dopo 6 anni Bersani si sarà abituato alla parola), parla a Repubblica così: “Lo schema della contrapposizione tra destra e sinistra non è più sufficiente a leggere il nostro tempo”. Serve uno schema nuovo, dice, e come vuoi chiamarlo se non Partito della nazione: “Non mi appassionano i nomi – continua il sindaco – Ma la formula è quella. L’importante è che sia un partito legato alla dimensione del governo, non della lotta. Vicino ai territori, in modo da suscitare nuove forme di partecipazione. E con un leader forte”. E il vocabolario si fa meno soffice a commento dell’uscita dei sindaci arancioni: “Mi pare la nostalgia per una restaurazione impossibile, almeno a livello nazionale. Non so come si possa riunire la sinistra. Quale sinistra, poi? Quella antisistema? La svolta di Tsipras dimostra che la scorciatoia dei populismi è sbarrata, ammesso che sia mai esistita. Quella socialdemocratica? Ma la socialdemocrazia – aggiunge – in tutta Europa è alla canna del gas“.

La risposta del resto dei partiti a sinistra è forte, una specie di calendario dell’avvento: la minoranza del Pd (Cuperlo e Bersani) sarà a Roma, Sinistra Italiana (Sel, Fassina, D’Attorre) sarà a Napoli, Civati (da solo) sarà a Milano. Insomma, fuori Vendola, dentro Alfano e Verdini? “Certo che no. Al di là dei nomi, noi non dobbiamo aggregare ceto politico”, “e non si tratta di fare una nuova Dc. Dobbiamo essere centrali, non centristi”. Benvenuti alla Leopolda.

*aggiornato da redazione web il 13 dicembre alle 13.40

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