La notizia della scomparsa di Scott Weiland non era neppure quotata, sono d’accordo: ciò detto, io ci sono rimasto comunque di melma. Fa quasi strano pensarlo, ma diamine, Scott ce l’aveva praticamente fatta a non morire come tutti gli altri: a 48 anni, andare al creatore per una pera in un tour bus quasi stride, quasi non fa più notizia. E pensare che io Scott Weiland l’ho pure incontrato, per puro caso, in un afoso pomeriggio dell’estate 2005 a Bologna quando, spalleggiato da due carabinieri e con la figlia in braccio, entrò nel mio stesso cinema per chiedere se vi fosse possibilità di vedere ‘in lingua’ La Vendetta dei Sith, ultimo episodio della trilogia prequel di Guerre Stellari. Il simpatico dialogo durò giusto qualche secondo, il tempo di realizzare che quello davanti a me c’era (all’epoca) il cantante dei Velvet Revolver e il suo girovita, lasciato scoperto dalla solita maglietta un po’ stracciata, era veramente esiguo.

Chissà quante potremmo raccontarne di storie simili: sta di fatto che, almeno nel suo caso, la morte avrebbe potuto avere la meglio tante altre volte, così tante che fa quasi sorridere realizzare come neanche due giorni fa avesse di fatto riaperto a una reunion degli Stone Temple Pilots (che nel frattempo lo avevano rimpiazzato, un po’ alla ‘volemose bene’, prima con Chester Bennington dei Linkin Park e poi con Joss Stone) o, scavando ancora nei ricordi recenti, guardare alla felice rassegnazione con cui quasi per primo aveva di fatto confermato la reunion prossima dei Guns N’ Roses. Nonostante la parabola artistica (e umana) prevedibile quanto breve, di Scott Weiland mi sento solo di dire che ha scritto delle grandi canzoni e lo ha fatto – giusto per capirci – arrivando al successo quando Kurt Cobain, Eddie Vedder, Chris Cornell e Billy Corgan erano ‘cosa fatta’: provateci voi, con una concorrenza così, a trovare il coraggio anche solo di fischiettarlo un motivetto.

“Non mi piace più andare in tour come una volta – aveva dichiarato praticamente qualche ora fa lui che, ahimè, in tour c’è morto – Durerà 9 settimane, mi mancherà non vedere mia moglie e i miei figli”. Lo stesso spirito con cui, senza stare qui a spaccare il capello in quattro, aveva intrapreso dopo i già citati Stone Temple Pilots l’avventura proprio con i Velvet Revolver vincendo al rush finale contro l’altro candidato illustre Sebastian Bach: l’ennesima meteora della musica anni ’90, più glam che grunge. Due album (“Contraband”, “Libertad”), parecchi concerti e l’ennesima cacciata: stavolta ad opera di Slash, Duff McKagan e Matt Sorum, troppo stanchi per essere abbastanza ispirati da lasciare il segno e ancora alla ricerca della loro personale bussola artistica dopo gli anni di ‘resistenza’ vissuti sotto la dittatura, estenuante, di Axl Rose. Da lì di nuovo a cercare di rimettersi in piedi, in carreggiata, con una carriera solista di livello ma che mai era decollata, una reunion che aveva stuzzicato ma che si era concretizzata comunque al di sotto delle aspettative ed un ultimo progetto, Scott Weiland & The Wildabouts, di cui sentiremo parlare più per le cronache di questi suoi ultimi istanti di vita che per meriti reali, dopo che già il decesso del chitarrista Jeremy Brown aveva contribuito a gettare altra inquietudine nella vita del cantante.

Ma comunque la si metta, lasciando che ora siano gli altri a sbizzarirsi con rivelazioni dell’ultimo momento, gossip vari, brani inediti, raccolte e frasi ad effetto, Scott Weiland mi mancherà e mancherà per l’uomo e l’artista “a metà” che era: bello e intrigante quanto grezzo e incompleto. Ed ora che i suoi 21 grammi sono evaporati nell’atmosfera una domanda però rimane irrisolta: si esce vivi dagli anni ’90?

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