In Medio Oriente i rapporti internazionali, come nel gioco delle perle di vetro, si dipanano all’interno di un labirinto a piani multipli, dove agiscono almeno una trentina di Paesi con obiettivi mutevoli, interessi inconfessabili, virulente divisioni interne e sordide alleanze sottobanco. Come nel romanzo di Herman Hesse, le mosse dei giocatori vengono solitamente dettate da connessioni logiche imprescrutabili agli aspiranti strateghi della Terza guerra mondiale.

Rivolte guidate da bande di predoni, impregnati di esaltazioni pseudo religiose, furono per secoli un fenomeno endemico. Si formavano, si ingrossavano e talora conquistavano città e pezzi di territorio tra il Mediterraneo e l’Oceano Indiano dove saccheggiare e spadroneggiare per poi disperdersi una volta esaurite le risorse. L’invasione dell’Iraq e la disastrosa gestione della pace da parte degli anglo-americani, ha ridato la stura al fenomeno. Grazie alla facilità di movimento, alla diffusione delle informazioni, a Internet e alla presenza di immigrati (e generazioni successive) la mistica fanatica oggi attecchisce in Europa (e limitatamente negli Usa) tra disadattati, menti labili e canaglie assortite. Ma dai palestinesi ai curdi fino ai salafiti algerini, la strategia di esportare il terrorismo per fiaccare l’Occidente non è certo nuova.

La differenza è che oggi i terroristi delle banlieue eccitano la psicosi da Quinta Colonna. È inevitabile che la rabbia di frange esaltate e violente cerchi un catalizzatore. In passato lo trovava in ideologie politiche di estrema destra o estrema sinistra, oggi nell’idolatria invasata. È una questione che si affronta con repressione mirata ed efficace, soprattutto tra i predicatori farneticanti, senza quelle isterie da scontro di civiltà propagate da mediocri mestatori. La stragrande maggioranza dei musulmani dall’Indonesia alla Cina, dall’India all’Europa aspira esattamente a ciò cui aspira la stragrande maggioranza dell’umanità: condurre una vita agiata in buona salute, divertirsi, vivere in pace, pregare liberamente, allevare i figli, ecc. Di aspirazioni al proselitismo, invasioni e guerre di religione non si trova traccia nella vita normale dei Paesi arabi.

Per un tragico cortocircuito della storia, la metastasi autoproclamatasi Isis – e che rappresenta un groviglio di componenti disomogenee (ex militari di Saddam in Iraq, foreign fighters, gruppi autonomi, criminali) non un’entità organizzata, disciplinata e coesa – si è inserita tra le scorie di un conflitto che nessuno bruciava dalla voglia di combattere.

Il presidente americano Barack Obama rifiutava e rifiuta tuttora di impelagarsi in Siria (come rifiuta di intervenire in Yemen, Libia, Nigeria o Mali) per due motivazioni di politica interna: la solenne promessa di una presidenza di pace e le esangui casse pubbliche. Ma anche per fondamentali considerazioni di strategia internazionale: la Siria ha scarsa importanza geostrategica e i vertici dell’Amministrazione Obama sono convinti (a torto) che l’indipendenza energetica degli States sia a portata di mano per cui le turbolenze mediorientali sono derubricate a beghe locali, per quanto sanguinose. Per di più le forze sul terreno – Assad, Isis, galassia filo al Qaeda – sono inaffidabili e comunque ostili all’America, mentre un supporto ai curdi crea attriti con la Turchia, utile alleato Nato contro Putin. Chiunque prevalesse in Siria, l’America ha poco da guadagnare.

La noncuranza americana, persino dinanzi all’uso di armi chimiche, aveva messo in fibrillazione tutti i Paesi dell’area spingendoli a cercare di riempire il vuoto lasciato dalla superpotenza e a non concedere spazio agli avversari. Da Israele all’Iran, passando per i Sauditi, molti hanno brigato in varia misura con i gruppi armati nell’illusione di condurre il toro tenendolo per la coda. La palma della doppiezza (denunciata al G20 dal presidente russo Vladimir Putin) spetta al presidente della Turchia Erdogan, impegnato a fronteggiare due nemici, alawiti e curdi.

In questa girandola di intrighi, la tragica parodia del Califfato si è estesa fin quando non ha minacciato i pozzi di petrolio del Kurdistan. A quel punto i Paesi del Golfo hanno compreso che manovre e ambiguità stavano sfuggendo di mano e insieme a un’America sempre riluttante hanno iniziato la campagna di bombardamenti che ha bloccato l’espansione dell’Isis. Da allora il destino del Califfato è segnato.

Gli attacchi terroristici a Bagdhad, in Kuwait, in Libano, alla Russia e alla Francia sono colpi disperati che accelereranno una fine inevitabile per due motivi: 1) l’Isis controlla un vasto pezzo di territorio desertico, con poca acqua, poco cibo e senza barriere naturali. 2) la conclusione del negoziato sul nucleare tra Usa e Iran (mediato dall’Oman) spiana la via a un’intesa anche tra Iran e Arabia Saudita mettendo fine a costosi conflitti per procura. Rimane da rimuovere Assad e sostituirlo con qualcuno che non scontenti tutte le parti. Non sarà semplice, ma nemmeno impossibile.

Da il Fatto Quotidiano di mercoledì 25 ottobre 2015

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