Il 24 novembre scorso ho assistito a un Convegno organizzato dal Ministero dell’Economia sul “rilancio” nel nostro Paese del Project financing (o come viene italianamente e pomposamente chiamato Concessione di Costruzione e Gestione, come quando, nel Ventennio, il cachet si doveva chiamare cialdino, per la purezza della lingua), tema di cui ho la disgrazia di occuparmi, e ho capito che, a 21 anni dalla pubblicazione della Legge 109/94, la cosiddetta Merloni, che introdusse in Italia questo strumento, annunciato come la panacea dei mali del mondo delle infrastrutture, ancora una volta siamo completamente fuori rotta.

Vorrei solo ricordare che il PF, abitualmente utilizzato perlomeno da 70 anni nei paesi anglosassoni per realizzare opere pubbliche con il concorso dei privati, è stato introdotto in Italia non tanto per una fisiologica evoluzione dei sistemi di partecipazione pubblico-privata, quanto per sopperire alla progressiva e irreversibile incapacità di spesa in conto capitale del nostro Stato, per capirci quella necessaria a realizzare e fare funzionare le infrastrutture, per fare posto ad una altrettanto irreversibile crescita della spesa corrente, quella necessaria a finanziare il debito e mantenere l’apparato burocratico pubblico. Bene, da quando questo strumento è stato introdotto nella nostra legislazione, non ha mai, dico mai, assolto strutturalmente alla funzione per cui era nato.

Roma cantieri 675

Il 24 ho sentito gli scienziati del Ministero, della Ragioneria dello Stato, della Presidenza del Consiglio, dell’Anci e via discorrendo, farsi vicendevoli  i complimenti per la creazione di un tavolo interistituzionale che da mesi è impegnato con decine di “specialisti” a partorire, con i nostri soldi, nientedimeno che una “convenzione tipo” da adottare nelle operazioni di concessione, documento che un solo bravo avvocato amministrativista, che poco poco si sia dato la pena di confrontarsi realmente con delle vere operazioni di PF, avrebbe impiegato poco più di una settimana di serio lavoro a redigere in maniera efficace.

Ho sentito che, a tutela della Pubblica Amministrazione, verranno presi provvedimenti per rendere ancora più restrittive le condizioni per i privati che vogliano essere così incoscienti da cimentarsi nel PF, quasi che ci fosse la ressa, fuori degli Enti Locali a proporre operazioni in PF, invece della triste realtà, cioè il vuoto torricelliano.

Non ho sentito spendere neanche una parola sul fatto che tutta la normativa di settore è ancora intesa come un sottoprodotto di quella degli appalti e quindi l’attenzione è tutta verso il costruttore e non verso il gestore su cui viceversa si impernia il 99% del successo della concessione stessa. È come se un tizio che volesse investire in un albergo si preoccupasse solo di chi lo costruirà, roba di tre o 4 anni, e neanche un po’ di chi dovrà garantirgli il ritorno dell’investimento nel corso dei successivi 20 o 50 anni, cioè il gestore.

Non ho sentito spendere una parola sul nodo della “Conferenza dei Servizi”, trappola amministrativa, creata per semplificare il processo autorizzativo e su cui invece si arena la stragrande maggioranza delle (poche) iniziative sul nostro territorio (per fare un esempio: per approvare il progetto di un’opera di 5 come di 500 milioni di euro, debbono mettersi contemporaneamente d’accordo dai 20 ai 35 enti pubblici, roba da sganasciarsi dalle risate, se non fosse tragico).

Non ho sentito spendere una parola sulla bassissima qualità dei Progetti Preliminari che arrivano alla gara per l’individuazione del Promotore, a causa della mancanza di finanza per coprire la fase “a rischio” della progettualità, cioè quella fase in cui ancora non si sa se l’opera verrà realizzata.

E tantomeno ho sentito fiatare sulla necessità di affrontare seriamente la questione degli Studi di Fattibilità, vero fattore critico di successo nella fase di programmazione delle Oopp, che sono diventati un obbligo per gli Enti Locali e che ancora non sono seriamente codificati nei loro contenuti da nessuna norma nazionale.

Non ho sentito un accenno sulla sotto-capitalizzazione delle imprese italiane, che non hanno la minima capacità di impegnare equity adeguato per operazioni medie di 60-200 mln, cioè il classico range del “PF all’italiana”. E anche se la hanno non hanno nessuna intenzione di  immobilizzare le proprie (esigue) risorse per i 30-50 anni del periodo di concessione, visto che il loro mestiere consiste nell’arrivare a malapena al collaudo dell’opera.

Non ho sentito nessuno che si azzardasse a dire che le banche italiane non sanno (e non vogliono) “entrare nel merito del credito”, requisito fondamentale, diffuso in tutto il resto del mondo, per leggere i progetti, analizzarli, mettersi nei panni del rischio imprenditoriale e attivare una efficace leva finanziaria sulle operazioni di PF, ma sono solo capaci di continuare a chiedere garanzie reali (leggi ipoteche) ai concessionari, alle loro nonne, cugini, nipoti, figli, ecc.

Dopodiché, se qualcuno non si deciderà seriamente a prendere il toro per le corna, e cioè affrontare l’elenco “vero” dei problemi del Project Financing, di cui ho richiamato solo una parte, l’unica cosa che prolifererà su questo tema saranno i convegni, e allora tanto varrà rimuoverlo del tutto dalla legislazione italiana, e non accanirsi a fare interventi di chirurgia plastica sulle norme, se non altro per recuperare un po’ di dignità.

Articolo Precedente

Politica industriale: su export probabilistico e trionfo del ‘terzismo’

next
Articolo Successivo

Politica industriale, l’occhio di un manager

next