Confesso: non lo sapevo di essere un musulmano moderato. Mi hanno sempre chiamato per nome. Fino a qualche anno fa, mi è capitato poche volte di dover dichiarare che fede professassi. Poi è arrivato l’11 settembre e ho capito che qualcosa stava cambiando. Quando sentivano il mio nome, che definivano arabeggiante, cominciavano a chiedermi se i miei genitori fossero musulmani. Si stupivano quando rispondevo che mia mamma è cristiana e mio padre musulmano. «Ma come è possibile? Tua madre non ha cambiato religione? Tuo padre non l’ha obbligata?». «No» ribattevo semplicemente, e vedevo la confusione farsi strada nello sguardo dell’altro. Quando molti anni dopo, a ventidue anni, ho realizzato di sentirmi un musulmano che non può dirsi tale senza riconoscere la sua origine cristiana mi hanno dato del folle.

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Le cose sono cominciate a peggiorare con la guerra in Iraq e i talebani in Afghanistan. I vicini di casa, che mi avevano visto nascere e crescere, cominciavano a fare domande, a voler sapere. «Curiosità. Non si capisce nulla e vogliamo stare tranquilli» dicevano quando venivano a bere il caffè nel salotto di casa nostra. Qualcosa che avevamo sempre tenuto privato, la fede, doveva per forza diventare pubblico. Dovevamo aprirci con tutti. Questo mi dava fastidio. Perché dovevo dire di che fede ero, quasi fosse una squadra di calcio? Mi arrabbiavo. Poi, da adolescente, scoprii che in alcune parti del mondo esistevano gruppi di fondamentalisti che discriminavano e uccidevano le persone che professavano una religione differente dalla loro. Allora cominciai a tollerare poco la domanda diretta «di che fede sei?» perché mi sembrava violenta, un voler entrare a tutti i costi nella mia vita privata senza permesso. Parallelamente, mi ricordavano quei fondamentalisti che tanto ho odiato. Perché dovevo essere etichettato? Non siamo un paese laico? C’è il libero arbitrio?

Diventando grande, ho cominciato a sentire spesso le seguenti parole “musulmano moderato” e “musulmani fondamentalisti”. Questa distinzione, entrata nel linguaggio comune, non mi era mai capitata di sentirla per nessun’altra religione. Ne sono sicuro. In questi ultimi anni mi hanno cominciato a definire “musulmano moderato”. Cosa c’è di moderato nel mio modo di essere? Il mio andare poco in moschea? Il tagliarmi la barba?

Ma il colmo è arrivato quando hanno cominciato, alcuni politici italiani, giornalisti, a chiedere ai musulmani, quelli moderati (come vengono chiamati), di condannare quello che dei terroristi hanno fatto a Charlie Hebdo e negli ultimi giorni a Parigi. Ho acceso un giorno la tv e ho visto un amico venir cacciato dallo studio televisivo, dopo aver detto 10 volte “condanno”, perché non si era alzato in piedi dichiarando, ancora una volta, con più voce, “io condanno”. Forse doveva anche inchinarsi di fronte a quei sordi che non hanno voluto sentire i suoi “io condanno”. Ma poi perché è colpa sua l’azione di alcuni singoli? E’ colpa di oltre un miliardo di persone l’azione di un gruppo? No, perché non esiste una colpa generale applicabile a un’intera comunità di individui.

Io non sono un musulmano moderato perché non conosco un Islam moderato, né conosco un Islam estremista. Conosco però una religione di nome Islam, di oltre 1400 anni, che racchiude la complessità, la pluralità e la ricchezza fenomenologica di qualsiasi altra religione. Poi, ri-conosco l’esistenza di terroristi e fondamentalisti che deturpano la fede, in nome di fini politici e economici, spesso sostenuti da mafie globali che hanno radici in molti governi. Come riconosco l’esistenza di tante persone, con nomi e cognomi, che hanno una credenza religiosa.

Ma forse mi sbaglio. Forse, invece, sono diventato estremista quando ho scoperto meglio le mie origini e ho visto un Occidente che si è definito illuminato, libero e democratico andare a braccetto con i peggiori dittatori del mondo arabo (e non solo). Baciare la mano a Gheddafi, prendere il thè con Saddam Hussein, decorare con una onorificenza della Repubblica italiana Assad e fare affari con Ben Ali e le monarchie del Golfo. In quel momento mi sono sentito tradito. Ho cominciato a ricordare tutte le lezioni di storia sul fascismo e sul nazismo. Ho ricordato i valori che ci hanno insegnato a scuola, quelli della resistenza e della libertà, la libertà dell’uomo. Mi sono guardato intorno e ho trovato una parte del nostro Paese impegnata a seguire gli imprenditori dell’odio e incapace di riconoscere la differenza fra una dittatura e una democrazia. Ancora, ho aperto un giornale e c’era scritto che ‘noi’ eravamo tutti dei bastardi. E poi, dopo, hanno detto che alcuni di ‘noi’ non c’entravano, perché siamo «moderati».

Quando finiremo di etichettare le persone, di inserirle in categorie improbabili? Quando cominceremo il dialogo, quello vero, intorno alla nostra Storia comune? La risposta è che dobbiamo emanciparci dall’odio e da chi è in attesa delle disgrazie per porci l’uno contro l’altro, dividendoci in ‘noi’ e ‘voi’. Fino a separare anche quel ‘noi’ in tante piccole categorie. Dobbiamo essere fondamentalisti, estremisti… ma del dialogo.

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