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Quando ero un giovane ricercatore assieme ad altri colleghi di diversi paesi Europei avevamo fatto una riflessione sulla frequenza del disagio psicologico nelle diverse generazioni di immigrati suffragata da studi epidemiologici. Emergeva che la prima generazione di immigrati, quella cioè che si era trasferita dal paese di origine, e la quarta, i figli dei nipoti dei primi migranti, erano le più stabili emotivamente.

La prima era totalmente legata alle sue tradizioni, portava con se la propria religione, gli usi e i costumi e la mentalità del paese di origine. La quarta generazione era ormai completamente europea e si sentiva integrata nelle nuove tradizioni e cultura. Il disagio colpiva maggiormente la seconda e, soprattutto, la terza generazione che si trovavano, per così dire, in mezzo al guado. Costoro vivevano una sorta di conflitto interiore in quanto si sentivano di dover attuare una scelta fra la nuova e la vecchia cultura. Avevano la sensazione di tradire le loro origini se abbracciavano nuovi modelli di pensiero e, allo stesso tempo, non vivevano come proprie le tradizioni originarie. L’uso della lingua simboleggiava più di ogni altro parametro questo conflitto.

La prima generazione era totalmente madrelingua del paese di origine e solo conoscente della nuova lingua europea. La quarta generazione possedeva totalmente la madrelingua europea anche se capiva la lingua dei bisnonni. La seconda e terza generazione erano fondamentalmente bilingui ma spesso con rilevanti difficoltà in entrambe, soprattutto quando si trattava di esprimere concetti filosofici complessi. Seguendo il pensiero di Lacan, psicoanalista francese che afferma che l’inconscio si struttura attraverso il linguaggio che il bimbo introietta dalla figura materna, si può pensare che la seconda e la terza generazioni vivano un conflitto inconscio.

I modelli di convivenza che venivano all’epoca prospettati erano fondamentalmente di due tipi: quello socializzante inclusivo rappresentato dalla scelta francese di far frequentare a tutti le scuole pubbliche mescolando il più possibile i figli dei francesi coi figli degli immigrati e quello liberista rappresentato dalla scelta inglese di permettere ad ogni gruppo etnico di costruire proprie scuole e ad ogni famiglia di fare una scelta.

Ognuno di questi due modelli è portatore di pregi e difetti che divengono ancora più difficili da valutare perché impattano su culture e mentalità molto diverse. Ad esempio, storicamente, i cinesi e i loro discendenti tendono maggiormente a costruire dei propri quartieri nella città e a preservare le loro tradizioni mentre i russi cercano il più velocemente possibile l’integrazione.

Di fronte al dramma di questi giorni mi sono venute in mente queste riflessioni anche perché sia nella prima strage parigina, quella del giornale Charlie Hebdo, sia da quello che si sa in questa gran parte degli attentatori sono nati in Europa e sono, a tutti gli effetti, cittadini europei. Non so a quale generazione appartengano gli attentatori e se le loro gesta, in cui distruggono se stessi e tentano di distruggere un pezzo della civiltà in cui sono vissuti, rappresenti tragicamente l’esplosione del loro conflitto interiore. So però che a noi , come società, occorrono dei meccanismi di difesa contro le emozioni brutali della barbarie. Cercare di razionalizzare, comprendere, capire anche se non si dovrà mai scusare è un atto di difesa psicologica che ognuno di noi cercherà di attuare per soffrire meno e poter immaginare il futuro.

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