Le istituzioni italiane, Banca d’Italia e Fondo interbancario in testa, stanno facendo una vera e propria corsa contro il tempo per tentare di salvare quattro banche prima che scattino le nuove regole europee sul “bail-in”. Questa volta a finanziare l’operazione non sarebbe lo Stato, ma il sistema bancario attraverso il Fondo di garanzia sui depositi alimentato dalle banche stesse. Il Fondo assumerebbe il controllo di Banca Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio di Chieti mettendo sul piatto circa 2 miliardi di euro per la ricapitalizzazione di questi istituti, il cui futuro – “bail-in” o no – appare quantomeno nebuloso.

La scelta di spingere sull’acceleratore per evitare il nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie sembra dettata da ragioni più di ordine politico che tecnico, dato che per le categorie coinvolte non dovrebbe cambiare poi molto: gli azionisti si ritroveranno comunque con un pugno di mosche in mano e, se necessario, anche gli obbligazionisti verranno chiamati a qualche sacrificio, magari attraverso uno riscadenzamento del debito o alla trasformazione di parte di esso in capitale. Solo per i correntisti cambierebbe qualcosa: con il “bail in” potrebbero subire perdite per la parte eccedente i 100mila euro, ammesso che sia rimasto ancora qualche correntista con così tanta liquidità sul conto corrente.

Perché tanta fretta di far partire il salvataggio con le vecchie regole? Secondo l’avvocato Dario Trevisan, esperto di mercati finanziari e società quotate, con il meccanismo attuale gli azionisti, pur subendo delle perdite anche gravi, manterrebbero il loro status e avrebbero dunque la possibilità di partecipare alla ricapitalizzazione delle banche e al loro rilancio. E questo è un nodo tecnico, ma anche e soprattutto politico, perché i territori coinvolti da queste crisi bancarie hanno un tessuto imprenditoriale importante che necessita di credito per poter funzionare e crescere. Territori che non a caso chiedono da tempo un intervento e il rilancio delle banche coinvolte. Ma un futuro è davvero immaginabile per questi istituti o le attività verranno comunque cedute ad altri? Il piano di salvataggio che il Fondo interbancario sta cercando di realizzare con il sostegno delle banche e l’approvazione della Banca d’Italia prevede l’assunzione del controllo delle banche in dissesto e la successiva vendita delle attività.

Un altro aspetto, rileva Trevisan, è quello delle svalutazioni: il piano di salvataggio tradizionale permette una maggiore flessibilità, accordi di ristrutturazione e quant’altro che limitano l’impatto del dissesto di un istituto sui bilanci degli investitori e delle altre banche che hanno sottoscritto i suoi titoli. Per contro, il meccanismo del “bail-in” appare invece molto più rigido sotto questo profilo e questo spiegherebbe almeno in parte la volontà delle banche di sostenere il piano del Fondo interbancario. Ma al di là degli aspetti tecnici, resta il fatto che la procedura che prevede il “bail-in” è stata approvata anche dall’Italia e riesce difficile capire per quale ragione le istituzioni del Paese stiano facendo di tutto per non applicarla. Si teme davvero la corsa agli sportelli o c’è dell’altro?

L’Europa non vede di buon occhio l’intervento del Fondo interbancario e sono in corso da settimane negoziati con Bruxelles per arrivare all’approvazione del piano. Sarà molto difficile ottenerla, anche perché – come scrive la stessa Banca d’Italia in un documento pubblicato l’8 luglio di quest’anno – se la completa applicazione del bail-in è prevista solo a partire dal 2016, “la svalutazione o la conversione delle azioni e dei crediti subordinati, fra cui gli strumenti di capitale, sarà applicabile già da quest’anno, quando essa sia necessaria per evitare un dissesto”. Se le cose stanno così, non si capisce perché si stiano perdendo mesi nel tentativo di salvare quattro banche con una mossa che ha il sapore della vecchia “soluzione di sistema”, quando poi comunque il “bail-in” entrerà in vigore tra poche settimane con ripercussioni importanti sui costi della raccolta delle banche più fragili e di minori dimensioni, dato che i depositanti tenderanno a privilegiare gli istituti più solidi per evitare brutte sorprese.

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