"Monte Bianco" conferenza stampa con Caterina Balivo

Lunedì sera è iniziato su Rai Due il nuovo reality Monte Bianco: un concept interamente made in Italy e ambientato tra le valli e le vette del massiccio più alto d’Europa. Da quando hanno iniziato a circolare le voci sulle riprese, il Club Alpino Italiano in veste ufficiale prima, e i molti alpinisti e arrampicatori italiani poi, hanno iniziato a levare voci di dissenso, offrendo ad argomentazioni le motivazione più svariate, che potremmo qui riassumere con un semplice e diretto: “E’ raccapricciante”. Io sono tra la schiera di chi ha ampiamente criticato l’idea stessa di questo show, ma non per questo ho deciso di non provare a vederlo. Così, lunedì sera, alle 21:15 ero davanti alla televisione, sintonizzata e pronta al peggio.

Le sette cordate – composte da un personaggio famoso affiancato da una guida alpina – devono sfidarsi una serie di prove, condotti da Caterina Balivo e dal “più grande alpinista del mondo”, niente popo-de-meno che, Simone Moro (l’alpinista che salì quattro volte sull’Everest, rendendosi in un caso protagonista di una rissa con gli sherpa, durante la quale – secondo alcuni versioni – sarebbero volate parole grosse al loro indirizzo). Un gioco.

La prima prova consiste in una calata di 70 metri, interamente armata e gestita dalla guida, che fa scendere il suo compagno di cordata “nel più veloce dei modi possibili”. La velocità è la prima distorsione del reality: la coppia vincente è quella che impiega meno tempo nello svolgimento del compito, quella più goliardica. Insomma, oltre a render l’idea che in montagna basta che ci vai con una guida che non ti accade nulla, si è data anche quella che in montagna chi primo arriva meglio alloggia (“per ragioni di logiche di spettacolo”, dice Moro verso la fine). Due connotazioni che non si intende bene cosa abbiamo esattamente a vedere con l’idea di alpinismo.

Con l’immagine di un’Arisa spalmata sulla parete a pelle di leopardo, i nostri 14 si dirigono al campo base. Qualcuno fatica a piantare una tenda e altri si lamentano di dover dormire in un “cunicolo di due metri per due” (ma cosa pensavate, di trovare lo Sheraton lassù in cima?) e così passa la prima notte.

Al risveglio, inizia la seconda prova: il nodo otto! Subito scatta l’ira di Facci: “Mica son venuto qui a far nodi io, sono venuto a scalare il Monte Bianco!”. E come pensavi di farlo, con lo sguardo e la precisione di Alex Honnold mentre scala in free solo El Capitan? Finalmente, dopo un’ora di programma, si sente la voce impacciata ed esitante di un Simone Moro che davanti alle telecamere non ci sa proprio fare: “Prendete la corda, ecco l’orecchio del coniglio, lo stagnetto, il sassetto – et voilà! il nodo è fatto!”. Grazie a quest’impeccabile spiegazione, i nostri concorrenti perdono almeno una decina di noiosissimi minuti nel tentativo di raccapezzarsi su come, esattamente, si insegua un otto. Ma c’è poco da biasimarli: infondo Mamma Rai avrebbe potuto preoccuparsi di insegnargli prima almeno le regole tecniche di base di quella cultura che l’alpinismo è. Andiamo avanti. Dopo l’ardua impresa dell’otto ripassato, una nuova sfida: stavolta a vincere è chi sale più velocemente. Manco sti poracci scalassero in moulinette: devono infatti destreggiarsi tra un rinvio e l’altro, tentando di liberare la propria corda dall’insidioso moschettone. Senza che nessuno gli abbia spiegato prima come farlo, verrebbe da dire data l’evidente goffaggine dei concorrenti alla vista dell’arnese. Goffaggine che si trasforma in rischio quando Arisa, dopo esser finalmente riuscita a tirar fuori il rinvio dalla protezione, infila tranquilla e ignara un indice nello spit per continuare a salire.

Ok, fermiamoci un attimo. Un indice nello spit significa che nessuno le ha detto cosa siano quegli anellini che riflettono il sole sulla parete, che nessuno le ha detto a cosa servano, che nessuno le ha detto: “Mai e poi mai infilarci un dito perché – cara mia – se vieni giù il tuo dito resta incastrato nella migliore delle ipotesi, tranciato nella più realistica delle variabili”. E Simone Moro commenta così l’episodio: “Beh, non è un errore grave, certo che però non si fa”. No, in montagna non ci sono cose che se fai o non fai non cambia nulla: l’alpinismo, come l’arrampicata, è uno sport estremo, ma nel reality qualsiasi denotazione del rischio viene meno, esattamente come quella di limite – ché mal si sposano all’idea di gioco.

Scalare non è un gioco, andare in montagna non è un gioco. La montagna è testa, non è a chi arriva primo o a chi è più spericolato. Il che ci porta all’apprezzamento almeno della guida di Arisa, che sulle Pyramides Calcaires ricorda alla concorrente presa dal panico che lì non stanno giocando, che se lei “toglie la corda dalla sosta e le scivola un piede” viene giù anche lui, che il suo culo è attaccato al suo. Finalmente qualcosa che ha veramente a che fare con la montagna. Perché nella salita di un’Arisa terrorizzata e nel ricordarle stizzito le basi della sicurezza da parte della sua guida, c’è qualcosa di umano, troppo umano, che è poi quello che avviene a chi in montagna ci va veramente: a volte vengono fuori le nostre paure, poco importa quanto irrazionali siano, perché stare a x metri di altezza e riuscire a compiere gesti dove non è concesso il minimo errore (in gioco c’è la sicurezza tua e del compagno – la vita stessa) con l’attenzione e la solidità di una persona piantata con i suoi due piedi in terra, non è uguale a fare una passeggiata. In montagna non puoi mai considerare tutte le variabili: il tempo, la roccia, un animale che puoi incontrare sulla parete, sono qualcosa che sfugge al più razionale dei controlli e delle organizzazioni, ma tu, alpinista, devi essere in grado di sapere come comportarti in un ambiente che solo in parte è il tuo, il che si ottiene anche attraverso la conoscenza di quelle regole tecniche che sono le basi che rendono l’alpinismo una forma di cultura, non solo uno sport, né tantomeno un gioco. Ovvio che ci sia spazio per l’improvvisazione, ma nemmeno nella musica improvvisare è da tutti.

Insomma, in Monte Bianco, della montagna non c’è proprio un bel nulla. Nè della montagna, né dell’arrampicata. Vengono deformate entrambe secondo le logiche del piccolo schermo. Ma è lo show, ragazzi. E lo show è, spesso e volentieri, fatto di sintesi, di immagini stilizzate, di slogan: tutte cose che, in alcun modo, hanno a che fare con la montagna, ma che sono tutte rapide ad arrivare e facili da ricordare – ed è tutta qui la pericolosità di questo reality, nell’idea di facilità e immediatezza che offre dell’alpinismo.

E allora, alpinisti!, continuate nelle vostre prove, con l’unica speranza che da qui agli anni a venire le persone a cui, invogliate dalle immagini mozzafiato viste nel salotto di casa, venga la bislacca idea di andare in montagna si trovino davanti delle guide che sappiano dire di no – nella più romantica delle ipotesi – o che sappiano informarli su rischi e rispettose accortezze che in quell’ambiente si devono avere – nella più razionale delle variabili. Oppure che – e pecco qui di ottimismo – ricordino quell’Arisa umana, troppo umana, colta dal panico e si rendano conto della reale profondità di ciò che andrebbero a fare, dissuadendosi dal farlo con tanta semplicità.

Intanto, tra una battuta e l’altra, quello che si sa è che è lo show business, signori e signori! E alla fine, purtroppo, sembra che finisca per coinvolgere tutti. (Alcuni) alpinisti esclusi.

Articolo modificato alle ore 22:00 dell’11 novembre

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