“La pesca non rende più niente. I terreni su cui dovrei coltivare sono stati già devastati dalle fuoriuscite di petrolio. I raccolti non sono più produttivi. Piantiamo ancora, ma il raccolto è davvero misero. Quando vennero quelli della Shell, ci promisero che se avessero trovato il petrolio avrebbero trasformato la nostra comunità e ognuno sarebbe stato felice. Invece non ne abbiamo ricavato niente”. Emadee Roberts Kapai, ottantenne, ha coltivato e pescato per decenni, fino a quando, nel 2009, c’è stata la fuoriuscita di Bomu Manifold. La sua è una delle voci raccolte nel rapporto appena pubblicato da Amnesty International e dall’ong nigeriana Cehrd (Centre for Environment, Human Rights and Development) sulle mancate bonifiche del delta del fiume Niger, nel sud della Nigeria: “Clean it up. Shell’s false claims about oil spill response in the Niger Delta”. Che sarebbe a dire: “Pulite! Le false affermazioni di Shell sulle sue risposte alle fughe di petrolio nel delta del Niger”. Sotto accusa la multinazionale anglolandese Shell, che per inciso ha da poco ottenuto dal governo italiano l’autorizzazione alla ricerca di idrocarburi nel mar Jonio.

Afferma Mark Dummett, ricercatore di Amnesty International: “La Shell sta continuando a esporre migliaia di donne, uomini e bambini alla contaminazione dei terreni, dell’aria e dell’acqua, in alcuni casi da anni se non addirittura da decenni. Le fuoriuscite di petrolio hanno un impatto devastante sui campi, sulle foreste e sulla fauna ittica da cui dipende la vita delle popolazioni del delta del fiume Niger. Chiunque visiti queste zone può vedere e annusare la dimensione dell’inquinamento”.

Sono state 1693 le fuoriuscite di greggio dal 2007. E si tratta di dati ufficiali della Shell, che potrebbero essere anche maggiori. Il delta del fiume Niger è la più grande regione petrolifera africana, dove la principale compagnia attiva è proprio la Shell, con circa 50 campi di petrolio e 5000 chilometri di oleodotti, molti dei quali vecchi e in cattivo stato.

È dal 2011 che la Shell ha promesso di bonificare i terreni inquinati nell’Ogoniland (regione del delta) segnalati dallo stesso Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. In base alle indagini svolte sul campo negli scorsi mesi e contenute nel nuovo rapporto di Amnesty e Cehrd, la maggior parte delle raccomandazioni dell’Unep non sono state seguite. Sulle 15 zone visitate fra luglio e settembre 2015, 13 sono ancora “inquinate in maniera visibile” o contaminate, contrariamente a quanto affermato da Shell e dal governo nigeriano. Non solo: le indagini hanno dimostrato con chiarezza che si tratta non di nuove fuoriuscite, ma di bonifiche inadeguate.

Un esempio su tutti: nel pozzo Bomu 11, i ricercatori hanno verificato la presenza di terreno annerito e strati di petrolio sulla superficie delle acque a distanza di ben 45 anni da una fuoriuscita, che Shell aveva dichiarato di aver bonificato due volte, nel 1975 e nel 2012. In altri siti, si è appurata la contaminazione dei terreni e delle acque nei pressi dei luoghi in cui gli abitanti vivono e cacciano, certificati come puliti dall’organo di controllo statale. Il rapporto denuncia infatti la corresponsabilità del governo nigeriano: l’organo di controllo statale Nosdra, (Agenzia nazionale per l’individuazione e la risposta alle fuoriuscite di petrolio) opera con personale ridotto e continua a certificare come bonificate aree che restano visibilmente inquinate.

Secca la presa di posizione della branca nigeriana di Shell, che respinge le accuse contenute nel rapporto, spiegando di aver “cominciato ad agire su tutte le raccomandazioni”. La multinazionale si è ritirata dall’Ogoniland nel 1993 a causa delle violenze in corso, ma continua a gestirne gli oleodotti, che secondo gli attivisti sono vecchi, maltenuti e all’origine di fughe frequenti. Ma Shell Nigeria assicura di essere “impegnata nell’applicazione del rapporto Unep” affermando di aver “sempre reso pubbliche le sue azioni in merito e sottolineato le sfide attuali riguardanti i furti di petrolio e raffinazione illegale”, riversando le responsabilità dell’inquinamento ambientale sui furti di greggio.

Già un anno fa, Amnesty aveva rivelato una serie di atti giudiziari che dimostravano come Shell avesse fornito false dichiarazioni sulla dimensione e l’impatto di due grandi fuoriuscite, con l’obiettivo di ridurre al minimo i risarcimenti. Centinaia di migliaia di persone potrebbero non aver ricevuto il risarcimento o aver ricevuto meno di quanto dovuto. La prova era emersa nel corso dell’azione legale promossa da 15mila persone i cui mezzi di sussistenza erano stati colpiti in modo devastante dalle fuoriuscite di petrolio. L’azione legale, condotta in un tribunale britannico, aveva costretto la Shell ad ammettere di aver sottostimato la reale dimensione dei danni.

Gli atti giudiziari in possesso di Amnesty International dimostravano inoltre per la prima volta che la Shell da anni sapeva che i suoi impianti erano in pessime condizioni. In un memorandum interno dell’azienda, riferito a uno studio del 2002, si leggeva: “Il futuro della maggior parte degli impianti è più o meno breve o inesistente, mentre le restanti sezioni presentano grandi rischi e pericoli”. In un altro documento interno, datato 10 dicembre 2009, un impiegato della Shell metteva in guardia: “La compagnia è del tutto esposta, dato che da 15 anni sugli oleodotti dell’Ogoniland non c’è stata manutenzione adeguata né una verifica della loro integrità”. Nonostante ciò, la Shell ha continuato ad attribuire la gran parte delle fuoriuscite dai suoi impianti al sabotaggio, pur essendo pienamente a conoscenza delle loro cattive condizioni.

Il rapporto appena diffuso da Amnesty stima che un inquinamento di tali proporzioni potrebbe richiedere la più grande operazione di bonifica al mondo e durare dai 25 ai 30 anni, con un costo complessivo che potrebbe aggirarsi attorno a un miliardo di dollari.

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