È stata per lungo tempo la coop rossa per eccellenza. Coopsette era fatta di manager che di mattina dirigevano cantieri e di sera erano nelle sezioni del Pci a fare politica. Anzi di più: di sezioni comuniste ce n’erano perfino dentro i suoi stabilimenti. Coopsette era simbolo e vanto di una Emilia che sapeva rimboccarsi le maniche e che, se il lavoro non c’era, sapeva crearselo. Una potenza nazionale nel settore dell’edilizia. E’ nata nel 1977 dalla fusione di diverse cooperative del Reggiano, che da fine Ottocento avevano fatto la fortuna di terre una volta povere. Tangentopoli, nella quale fu coinvolta, non l’aveva spezzata, ma 20 anni dopo, tra inchieste giudiziarie e crisi dell’edilizia, la coop di Castelnovo Sotto, in provincia di Reggio Emilia, è precipitata in una crisi nera da cui non è chiaro come usciranno i suoi 1300 creditori, un migliaio dei quali anche soci. Gente che con l’idea di cooperazione ci è cresciuta. Il 30 ottobre il ministero dello Sviluppo economico, verificata la condizione di insolvenza, ha disposto con decreto la liquidazione coatta amministrativa e ha nominato Giorgio Pellacini commissario liquidatore. Non è un fallimento, ma poco ci è mancato.

A chiedere che Coopsette, schiacciata da debiti per 800 milioni di euro, venisse messa in liquidazione coatta era stata soprattutto la Legacoop, associazione di cui fa parte Coopsette, e che ha indicato al ministero una terna di nomi per la carica di commissario. Un modo, la nomina del commissario, per cercare di salvare l’occupazione (anche con l’utilizzo degli ammortizzatori sociali), salvaguardare parte del prestito sociale (in molti casi i risparmi dei soci) e garantire la continuità produttiva, visto che l’azienda è presente ancora in molti grandi appalti. Fallito il progetto di risanamento, naufragato il piano concordatario per l’accordo con i creditori, Coopsette ha infatti evitato grazie alla liquidazione coatta un’udienza per fallimento portata avanti da un creditore e che si sarebbe dovuta tenere il 3 novembre. E un fallimento vero e proprio avrebbe lasciato i lavoratori e i creditori senza alcuna speranza.

Ora l’azienda potrebbe essere smembrata, alcuni suoi rami d’azienda potrebbero finire in mano ad altre proprietà, con dentro tutte le conoscenze di lavoratori che hanno operato nella costruzione di grandi infrastrutture in tutta Italia: la Tav, la torre di Fuksas della Regione Piemonte e la metropolitana a Torino, la nuova stazione Tiburtina a Roma solo per citare alcuni casi. Per il resto non è chiaro ancora che cosa succederà.

E’ stata una lunga agonia. Già nel 2013, anno in cui la coop aveva un portafoglio lavori da 1,2 miliardi di euro, Coopsette aveva concordato con i suoi creditori un piano di ristrutturazione del debito: ma dopo due anni gli obiettivi non erano stati raggiunti e la coop di Castelnovo Sotto aveva chiesto ai propri creditori un’altra possibilità con un nuovo piano. Ma non è bastato. Troppo dura la crisi del mattone in questi anni. Così come troppo forti erano stati i contraccolpi di alcune inchieste giudiziarie che avevano coinvolto la cooperativa. Tra tutte, quella dell’inchiesta sul nodo Tav di Firenze dove è stato chiesto il rinvio a giudizio per alcune persone che fanno capo alla coop.

All’ultima assemblea i soci piangevano. Nella zona del Reggiano l’impresa era un’istituzione e una fonte di ricchezza. Tanto importante che a luglio il ritardo nei pagamento dell’Imu da parte di Coopsette a favore del Comune di Campegine, aveva messo in crisi l’amministrazione: un buco di 180mila euro su un bilancio di 290mila euro con il sindaco che si era detto costretto a aumentare l’Irpef ai cittadini per salvare le casse. Un aneddoto questo per far capire quanto potrebbe essere duro il colpo per l’economia emiliana.

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