Se una Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra venne aperta nel biennio al tritolo che ha cambiato la storia d’Italia, Calogero Mannino non ne è colpevole. È questo il primo tassello che emerge dalla sentenza emessa nei confronti dell’ex ministro della Democrazia Cristiana, assolto dal gup di Palermo Marina Petruzzella. Un’assoluzione che segue l’articolo 530 del codice di procedura penale, ovvero non avere commesso il fatto contestato. Ma con la specifica del secondo comma (la vecchia insufficienza di prove). Il giudice ha quindi respinto la richiesta dell’accusa – rappresentata dai pm Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Nino Di Matteo – che per Mannino aveva chiesto una condanna a nove anni di carcere: una pena che beneficiava già dello sconto di un terzo previsto per chi sceglie il rito abbreviato.

L’ex ministro, difeso dagli avvocati Grazia Volo, Marcello Montalbano, Carlo Federico Grosso e Nino Caleca, aveva infatti optato per il rito alternativo, sfilandosi dal processo principale, quello in corso davanti alla corte d’assise di Palermo e che vede alla sbarra 10 imputati: dai boss mafiosi come Totò Riina e Leoluca Bagarella, agli ufficiali dei carabinieri come Mario Mori e Antonio Subranni, fino ai politici Nicola Mancino e Marcello Dell’Utri. Il risultato, dopo un rito abbreviato eccezionalmente lungo (il processo è durato quasi due anni), è che Mannino si trova a essere il primo imputato giudicato e assolto dell’inchiesta sulla Trattativa. È per questo motivo che – nonostante sia solo un giudizio di primo grado – quella emessa dal gup Petruzzella è probabilmente una sentenza storica: si tratta infatti della prima assoluzione scaturita dalla delicatissima indagine aperta nel 2008 dalla procura siciliana, che negli anni ha coinvolto i piani più alti delle istituzioni. “Andiamo avanti. Impugneremo la sentenza”, è stato il commento dei pm palermitani. Ma il procuratore capo Francesco Lo Voi ha poi precisato: “Valuteremo se impugnare la sentenza dopo averne letto le motivazioni. L’impugnazione è probabile, ma se non si leggono le motivazioni della sentenza non ha senso anticipare giudizi”. L’avvocato Montalbano, uno dei legali dell’ex ministro (che non era presente alla lettura del dispositivo) esulta: “E’ la fine di un incubo per il nostro assistito. Ci ha ringraziato. Ora è a casa, molto emozionato dopo questa notizia. Ha solo detto: grazie avvocati”. Un altro legale del politico, Nino Caleca, ha aggiunto:” I processi non sono i luoghi più adatti a ricostruire la Storia. Si fanno con i fatti e per accertare precise condotte penali”.

Adesso, in attesa delle motivazioni, il cui deposito è previsto tra 90 giorni, resta da capire se l’assoluzione dell’ex ministro farà traballare o meno la fattispecie di reato contestata dai pm all’imputato: quella disciplinata dagli articoli 338 e 339 del codice penale, ovvero la violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato. Una contestazione giuridica che tante critiche ha sollevato e che adesso incappa in un’assoluzione, che però, essendo formulata con il secondo comma (la vecchia insufficienza di prove, e non invece perché il fatto non costituisce reato), non inficia totalmente la tenuta accusatoria principale. Le motivazioni dell’assoluzione Mannino si preannunciano particolarmente interessanti anche perché il processo all’ex ministro prende in esame soprattutto il primo segmento storico della Trattativa Stato-mafia, fondamentale per il resto dell’architrave accusatorio. Prima delle stragi di Falcone e Borsellino, prima dei botti terrificanti rimasti scolpiti nella coscienza di questo Paese, c’è un prequel in cui Mannino – secondo gli investigatori – ha il ruolo del protagonista principale.

Al netto dell’assoluzione dell’ex ministro, la data che cambia la storia d’Italia è probabilmente il 30 gennaio del 1992: quel giorno, a Roma, la corte di Cassazione conferma le condanne al carcere a vita per il gotha di Cosa nostra. Totò Riina è infuriato e, secondo diversi pentiti, raduna i boss di primo livello in una serie di riunioni: progetta la sua vendetta, ordina di “pulirsi i piedi”, cioè punire chi non ha rispettato i patti, stila la sua lista nera con i nomi dei politici da eliminare. Parallelamente Mannino, all’epoca l’unico ministro siciliano del governo di Giulio Andreotti, è nervoso e all’amico Giuliano Guazzelli, maresciallo dei carabinieri, confessa: “Ora o uccidono o uccidono Lima”. Parole sempre negate dall’ex ministro, perché suonano come macabra previsione: il 12 marzo del 1992, infatti, la chioma bianca di Salvo Lima riversa nel sangue a Mondello apre la stagione di guerra allo Stato di Riina.

Il ministero dell’Interno, intanto, emana una nota top secret: fa cenno ad una fonte non meglio identificata (poi si dirà che è il neofascista Elio Ciolini) e parla di una “campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi e Pds, nonché sequestro e omicidio futuro presidente della Repubblica”, che all’epoca è da tutti indicato in Andreotti. Inizia a circolare una lista, anzi, una lista nera: è l’elenco dei politici che rischiano di essere assassinati. Ci sono i ministri Salvò Andò, Claudio Martelli e Carlo Vizzini, il deputato regionale siciliano Sebastiano Purpura (vicino a Salvo Lima) e il presidente della regione Siciliana Rino Nicolosi. C’è anche Mannino che in quei giorni – stando a sentire diversi testimoni – è spaventatissimo: incontrando Mancino a Montecitorio, subito dopo l’omicidio Lima, dirà addirittura “adesso tocca a me”, salvo poi smentire tout court.

È per questo motivo che – secondo l’accusa – l’ex ministro si sarebbe mosso, incontrando l’allora capo del Ros Subranni e l’ex dirigente del Sisde Bruno Contrada: tutto pur di cercare di aprire un canale di comunicazione con Cosa nostra. Poi, il 4 aprile, i boss ammazzano il maresciallo Guazzelli, indicato da più parti come fedelissimo di Mannino: per i pm, è l’ennesimo avvertimento per l’ex ministro. Che in un colloquio con Antonio Padellaro, all’epoca giornalista dell’Espresso, si sfoga: “Io – dice – non vado più in Sicilia, evito di andare in Sicilia, anche perché temo che Cosa Nostra sia informata da personaggi interni della mia presenza su un aereo diretto a Palermo”.

Sarà un caso ma anche il boss Giovanni Brusca spiega che proprio in quei mesi aveva iniziato gli appostamenti sia nella casa palermitana del ministro, che a Sciacca, sua città d’origine. Ad un certo punto, però, a Brusca viene comunicato di fermarsi: l’attentato non si fa più. Siamo nelle stesse settimane in cui il capitano Giuseppe De Donno aggancia in aereo Massimo Ciancimino, e riesce a farsi ricevere – insieme a Mori – dall’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino: per gli inquirenti è il primo atto formale della trattativa, l’attentato a Mannino viene, comunque, annullato, mentre i piani per assassinare Paolo Borsellino procedono a tappe forzate.

“Hai capito, questa volta ci fottono: dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”, dirà nel marzo del 2012 Mannino al politico ex Dc Giuseppe Gargani, mentre la giornalista Sandra Amurri li ascolta, seduta al bar Giolitti di Roma. Solo una delle tante testimonianze, sulle quali poggiava la requisitoria del pm Roberto Tartaglia: “I Ros hanno agganciato l’ex sindaco mafioso di Palermo su input di Mannino, terrorizzato per la condanna a morte emessa da Riina. È per questo che inizia la trattativa: non per fermare le stragi ma per salvare la vita ad alcuni politici”, sintetizzava l’inquirente nella sua requisitoria. “Il presupposto per la trattativa non esiste” era invece l’autodifesa di Mannino. E il giudice oggi gli ha dato la ragione. Se una storia diversa di questo Paese esiste, non ha retto – al momento – il giudizio di un giudice terzo.

Aggiornato dalla redazione web

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