campagna anti-nastro rosaAlcune attiviste americane, infastidite dalla narrazione mistificata del tumore al seno, hanno coniato il motto: “Pink is not a cure”: “Rosa non è una cura”. Parafrasando, oggi verrebbe da dire: esibire le tette non è una cura.

Sono senologa e co-firmataria di una lettera rivolta a Lilt e ministra della Salute, largamente condivisa anche da molte sedi periferiche Lilt, in cui si contesta la campagna “Nastro Rosa” 2015. Parlarne ancora può sembrare superfluo e pedante. Lo faccio perché in realtà non se ne è parlato: la deriva gossip su Tatangelo, bellezza e silicone ha completamente oscurato il messaggio inviato.

Pochi hanno pubblicato la lettera di protesta originale, pertanto è stato possibile distorcerla a piacimento. Leggendone le motivazioni è facile verificare che nulla hanno a che fare con la testimonial. Riguardano invece concetti come la strumentalizzazione del corpo femminile, la non attinenza dell’immagine ai fini dichiarati, l’idea che lo sponsor non debba essere coinvolto nemmeno potenzialmente con sostanze che possono causare ciò che si vuol combattere (nel caso di tumore al seno (fenomeno chiamato pinkwashing).

La delegittimazione continua attribuendo alle scriventi un tono rabbioso e tristemente sguaiato, e archiviando la questione a non-notizia irridendo chi ha criticato “il nulla” come complice ingenua del successo della campagna. Tristemente sguaiata – oltre che eutanasia della creatività – è piuttosto una strategia di marketing incentrata sull’esposizione del seno (ops, tette) per la prevenzione del tumore mammario.

La campagna è sbagliata nel metodo. L’immagine da calendario è indifferente a giovani donne mentre “ammicca al pubblico maschille, che sfortunatamente non è il target”, argomenta il blogger Antonio Filigni. Che delegittima il “rational della campagna” mi prendo cura della mia salute: il “linguaggio del corpo suggerisce altro”. Ma soprattutto la campagna è sbagliata nel merito. Che dovrebbe fare in pratica la giovanissima in “target” per proteggere il seno? Lo stimolo generico verso visite ed esami strumentali è irresponsabile non esistendo attualmente uno screening per le donne giovani. Lo stile di vita sano che la testimonial dovrebbbe rappresentare (anche se non la vediamo addentare un mazzo di broccoli o correre sudata nel verde), se abbinato a slogan vagamente doppiosensisti come #fatelevedere, trasmette l’implicita promessa che la malattia sfiorerà appena le più brave per colpire duro solo poche sfigate che non sanno (piacere e) prendersi cura di sé. Il che è victim blame: colpevolizzazione della vittima di cancro. Temi sempreverdi come alimentazione, attività fisica e autopalpazione andrebbero ormai integrati con conoscenze più attuali: rischi ambientali, informazione sulle breast unit, segnalazione di forme ereditarie che si esprimono proprio in età precoce. Silenzio assordante. In compenso l’adesione allo screening è bassa in modo imbarazzante proprio nel Sud della presidenza nazionale Lilt. E la risposta è far vedere un bel paio di tette?

Ovviamente non è un problema di nudo. Appellativi quali “bacchettone/bigotte” sono chiaramente strumentali e ridicoli. Invece l’accusa ricorrente di invidia (“rosicone”) mi indigna: perché rivolta prevalentemente a donne che hanno avuto il cancro poste di fronte a un seno esibito nella sua prorompente arroganza. Un raggelante colpo basso verso chi è ferita nel corpo e nella psiche. Quanto al silicone…eviterei parlarne volentieri. La chirurgia estetica non è in discussione esattamente come non lo è la testimonial in sè. Come senologa sento tuttavia mio dovere etico e umano proteggere la sensibilità di alcune giovani portatrici di protesi post-mastectomia che di fronte all’esibizione di un seno con protesi estetiche nella campagna che rappresenta la “loro” malattia si sono sentite offene e irrise.

Il che rimanda al marketing ma non solo. Ho letto con curiosità che “con lo sguardo anche in oncologia si abusa del nudo femminile”. Ci ho messo un po’, confesso, a capirne il significato. Abusiamo pure “noi”? Non nella mia esperienza presente; ma del resto l’abuso del corpo delle donne è ubiquitario quindi è scontata la sua presenza anche in un ambito dove meno te lo aspetti, contro legge e deontologia, eredità certo di baroni e luminari onnipotenti. Ciò non toglie che sia una pratica obsoleta, odiosa, da sanzionare e che in questa querelle rappresenti un’aggravante. L’oggettificazione del corpo delle donne è inaccettabile per incentivare l’acquisto di una moto, figuriamoci per abusare della professione medica o vendere la “prevenzione” del cancro. La sessualizzazione del cancro al seno è fenomeno noto e contestato. Attinge a una strategia di marketing sessista, ma più sottilmente a quell’humus culturale che nutre ogni forma di violenza contro la donna. In epoca di allarme femminicidio, tutti convinti che stiamo parlando del nulla?

Dallo scorso anno assistiamo a un’insistenza dello sfruttamento del seno diabolicamente perseverante: #possotoccartiletette (Lilt Piemonte 2014), #fatevedereletette, #tetetteperlascienza. L’obiettivo di basso profilo del “purché se ne parli” rende la deriva gossippara della protesta un successone: “obiettivo raggiunto!”. Vorrei mestamente ricordare, tuttavia, che l’obiettivo è la lotta contro il cancro al seno. Che non coincide con l’ammontare delle donazioni: conta l’uso trasparente del denaro, l’efficacia degli obiettivi, il mezzo con cui si ottiene, la cura nell’evitare pinkwashing.

Ironia, intelligenza e creatività sono le benvenute nelle campagne sul tumore al seno e forse è arrivato il momento per una svolta di stile e prospettive. Un appello rivolto a tutta la comunità scientifica, ai decisori sanitari e ai media.

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