Caso Yara Gambirasio - Udienza preliminare per l'imputato BossettiAi primi del Novecento il genio di Magritte aveva escogitato un quadro con raffigurata una pipa e la dicitura “Questa non è una pipa”; idea straordinaria per esprimere come ciò che è impresso sulla tela del pittore non è la realtà fisica. Mai però avrebbe pensato, il pittore francese, che persino un fatto tanto “fisico” come il processo penale, dove un uomo viene accusato di un delitto e, se ritenuto colpevole, subisce la perdita della libertà personale, potesse essere accostato alla sua pipa ed ai “manifesti” dell’arte pop.

Sulla rivista Crimen, qualche mese fa, ho lanciato l’idea filosofica che il processo penale mediatico sia, oggi, un prodotto pop, sul modello estetico dei quadri di Warhol. Riprendendo la pipa di Magritte e sostituendola con un’immagine di un processo e modificandone la didascalia da “questa non è una pipa” a “questo non è un processo, è pop justice” ho pensato di rappresentare la realtà odierna, dove la fiction processuale prevale sul processo vero (fino a pochi anni fa il processo mediatico serviva invece per sostenere quello reale). Sembrava un azzardo intellettuale, ma la cronaca giudiziaria di questi giorni supera l’immaginabile ed il prevedibile. Dall’aula in cui si sta celebrando il processo contro Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio, trapela un dato che ha dell’incredibile: il video del furgone bianco (quello riconducibile all’imputato) e che per mesi tutti hanno visto in televisione mentre transitava nei pressi della scuola di danza, poco prima che la giovane venisse rapita dal suo omicida, non è tra gli atti del processo. Una svista? Parrebbe di no; sembrerebbe, dopo la testimonianza del responsabile dei Ris, che quel video fosse stato “concordato” (per ragioni mediatiche).

Una sorta di spot dell’omicidio, da trasmettere in televisione. L’idea culturale della pop justice era quella secondo cui, oggi, il “processo a puntate” sui media fosse ormai il vero processo, togliendo valore a quello reale, da celebrarsi nell’aula di giustizia. Così come accade per la rappresentazione della pipa di Magritte o per la Marylin Monroe di Warhol. Mai sarebbe stato immaginabile che la pop justice raggiungesse vette così estreme, tramutandosi secondo il paradigma pop, in uno spot mediatico contro l’imputato. Neppure sulla base di elementi d’indagine “proiettati” sullo schermo come la puntata di una fiction, ma di dati non esistenti. Non c’è più la giustizia mediatica per supportare il processo; non c’è più la giustizia mediatica che sostituisce il libro giallo per rimpiazzare il vero processo (lungo e complicato da capire); c’è la giustizia mediatica spot. Almeno l’arte pop e la pop justice nella sua versione ingenua si fondavano su elementi esistenti, poi rivisitati in copia medatica da far godere alla massa; oggi la pop justice ha riscritto i canoni dell’estetica pop per ridisegnarli secondo la provocazione di una nota canzone degli U2 che, proprio a proposito del linguaggio mediatico, lo definisce “even better than the real thing” (persino meglio del reale). La pop justice da ipotesi azzardata si è trasformata ufficialmente in un dato della realtà culturale del nostro tempo.

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