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Nel 2014, in tutto il mondo, le 230 società di gestione dei diritti d’autore hanno raccolto 314 milioni di euro a titolo di c.d. copia privata, (Fonte Cisac, ndr) il compenso che si paga quando si compra uno smartphone, un tablet, un pc o un qualsiasi altro dispositivo idoneo a registrare una copia di un brano musicale o di un film allo scopo di indennizzare – o almeno questa sarebbe la finalità della legge – il titolare dei diritti d’autore per il pregiudizio che potrebbe soffrire se il dispositivo in questione venisse, per davvero, utilizzato per registrare una “copia privata”.

Alla fine del 2015, solo in Italia – a seguito dello straordinario aumento delle tariffe disposto dal ministro dei Beni e delle attività Culturali, Dario Franceschini nel 2014 – saranno raccolti compensi per “copia privata” pari a 157 milioni di euro (il dato, sin qui mai indicato né dal ministero, né dalla Siae, emerge ora dalla relazione di una commissione parlamentare francese proprio sulla disciplina della copia privata, ndr).

Un fiume di denaro in piena, destinato a continuare a crescere in nome di un principio che, nell’era nello streaming e del cloud, appare a dir poco anacronistico: difficile, infatti, credere che nel 2015 in tanti usino uno smartphone o un tablet per farsi una seconda copia della canzone o del film appena acquistati.

Dura lex, sed lex, però, dicevano, con rassegnazione, i romani e, quindi, in attesa che cambino le regole in Italia, come nel resto d’Europa, consumatori e industria digitale dovranno rassegnarsi a continuare a vedersi svuotare tasche e bilanci da un “balzello” che fa assai poco onore al sistema cultura.

Ma una cosa è doversi rassegnare a versare un obolo – per quanto esoso – all’industria culturale perché tanto stabilisce la legge, e un’altra è accettare passivamente l’idea che questo fiume di denaro anziché finire per davvero nelle tasche di autori, produttori, artisti e interpreti, nel modo più efficiente e trasparente possibile, si perda in mille rivoli al riparo da occhi indiscreti, e poi finisca nei forzieri dei soliti noti, rendendo sempre più ricchi i ricchi e sempre meno libera e pluralista l’industria musicale e cinematografica italiana. Eppure è esattamente questo che succede.

Ma stiamo ai fatti. Leggi e regole, scritte male e attuate peggio stabiliscono – almeno in relazione ai compensi raccolti per gli anni 2012 e 2013 e destinati agli attori di cinema e Tv – che la Siae dopo aver trattenuto per sé un lauto rimborso spese, peraltro determinato in assoluta autonomia, ripartisca l’importo complessivo raccolto a titolo di compenso per copia privata tra le società di intermediazione dei diritti operanti sul mercato “in misura percentuale rapportata… al numero di mandati esplicitamente conferiti a ciascuna impresa (società di intermediazione dei diritti connessi, ndr) dagli artisti interpreti ed esecutori alla data del 31 gennaio 2014  e che, a tal fine, ogni società di gestione comunichi alla Siae “il numero di mandati ad essa esplicitamente conferiti”.

Mai, probabilmente, la Società italiana autori ed editori è stata tanto ligia nell’applicare le regole.

Detto, fatto. Nei mesi scorsi, la Siae ha infatti, preso gli oltre 11 milioni e mezzo di euro destinati agli attori di cinema e tv in relazione agli anni 2012 e 2013 e – trattenuto quanto di sua competenza – ha staccato due assegni in favore delle due società di intermediazione dei diritti connessi sin qui operanti sul mercato: oltre otto milioni di euro sono così andati al Nuovo Imaie, ex monopolista di fatto, e quasi tre milioni di euro alla Cooperativa 7607, neo-costituita società di intermediazione fondata e gestita da attori per gli attori.

Il criterio seguito – quasi a norma di legge – per determinare l’entità dei due assegni lascia, tuttavia, senza parole. Solo ed esclusivamente la lunghezza degli elenchi dei mandanti – o presunti tali – presentati dalle due società: più lungo l’elenco del Nuovo Imaie, più ricco il suo assegno, meno lungo quello della Cooperativa 7607, più povero il suo assegno. Un tanto al centimetro, proprio come in ferramenta si vendono catene, cavi o fili elettrici, misurandoli sul bancone.

Ogni riga, in elenco, qualche migliaio di euro in più, esattamente oltre 2 mila euro per ogni nome e cognome in più.

Tanto basterebbe per usare, una volta di più, la parola “scandalo”, in relazione alla vicenda della c.d. copia privata: lo Stato da una parte chiede a cittadini e imprese di versare oltre 150 milioni di euro per finanziare il sistema cultura, e dall’altra lascia che la montagna di denaro così raccolta sia distribuita tra gli aventi diritto, un tanto al centimetro, senza battere ciglio, anzi, “avvallando” tale metodo.

Ma non basta. Ricevuto il suo assegno, infatti, il Nuovo Imaie si è reso conto che gli attori della Cooperativa 7607 avevano, probabilmente, presentato alla Siae un elenco troppo lungo, aggiudicandosi così centinaia di migliaia di euro in più, e quindi ha chiesto alla Siae di esaminarlo.

Ed è qui che la vicenda scivolerebbe nel ridicolo se non stessimo parlando di soldi veri – e tanti – e di risorse dragate dalle tasche dei consumatori per finanziare la cultura. La Società italiana autori ed editori, infatti, dapprima si rifiuta di fornire l’elenco presentato dalla concorrente del Nuovo Imaie, costringendo addirittura quest’ultimo a rivolgersi ai giudici per ottenerlo. E quando i giudici – come era assolutamente ovvio accadesse – le ordinano di fornire l’elenco al Nuovo Imaie, gliene fornisce questa versione con nomi e cognomi completamente cancellati, semplicemente irriconoscibili.

A questo punto, il Nuovo Imaie, torna davanti ai giudici che ordinano alla Siae di non scherzare con il fuoco e di esibire una versione dell’elenco leggibile. Eccola.

Avuto finalmente accesso all’elenco, il Nuovo Imaie scopre che la Cooperativa 7607 avrebbe “allungato” artificiosamente il suo elenco, infilandoci dentro i nomi di attori che, in realtà, non le hanno mai conferito alcun mandato e, se non bastasse, ripetendo due volte alcuni nomi, ovvero scrivendo una volta prima il nome e poi il cognome e la volta successiva, prima il cognome e poi il nome.

Sembra una storia uscita dalla penna di un autore cinematografico di talento, invece, è drammaticamente vera – parola per parola-  come dimostrano i provvedimenti appena pubblicati sul sito del Nuovo Imaie.

Utile leggere anche la posizione della Cooperativa 7607.

Il punto però, non è – o almeno non è solo – chi ha ragione e chi ha torto tra i due contendenti. Il punto è quello che c’è sullo sfondo. Un ente pubblico economico come la Siae, incaricato dalla legge di raccogliere centinaia di milioni di euro e distribuirli poi tra gli aventi diritto – al netto peraltro, dei costi di gestione unilateralmente stabiliti – che ripartisce 11 milioni di euro, un tanto al centimetro, senza neppure peritarsi di scorrere gli elenchi trasmessi dai beneficiari del riparto, e rendersi conto che alcuni nomi compaiono due volte e che altri sono presenti in entrambi gli elenchi.

Tutto regolare? E’ per questo che gli italiani nel 2015 pagheranno oltre 150 milioni di euro? Per vederli poi finire così tra vigilanti che si girano dall’altra parte e furbi e furbetti che giocano a chi scrive più nomi in elenco, forti del fatto che l’Ente pubblico che dovrebbe garantire il diritto d’autore si preoccupa solo di mettere in tasca il suo lauto rimborso spese?

E’ urgente che le Autorità di vigilanza intervengano a garantire, almeno, che quel fiume di denaro, a torto o a ragione dragato dalle tasche dei consumatori italiani, finisca in quelle dei suoi destinatari in modo veloce, efficace, trasparente e senza trucchi che fanno poco onore a chi li fa e a chi – da vigilante – non riesce a evitarli, smascherarli e impedirli.

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