Mi rendo conto che con lo piscodramma romano ancora in corso e che ha visto protagoniste star alla Ignazio Marino e alla Matteo Orfini; con la legge di stabilità da mettere in pista per rilanciare alla grande l’economia e le precarie sorti del paese; per non trascurare i destini mondiali di Valentino Rossi che tanto preoccupano il già occupatissimo premier Matteo Renzi; mi rendo conto che con tutto ciò in agenda poco spazio rimanga per il resto.

NUOVI APPRODI Ma c’è una cosa che va segnalata tra le varie. L’intervista concessa a Repubblica da Giorgio Napolitano (sabato 31 ottobre, “Io e il Pci di Berlinguer, quel sogno riformista oggi parli a tutta la società”). In questa  paginata, l’ex capo dello Stato dice cose significative sulla parabola degli ex comunisti. Cose che possono aiutare a capire dove siano approdati e forse a spiegare la confusione attuale che regna nel campo della sinistra ormai appaltata a leader che di sinistra non sembrano più avere granché.

CHE CLASSE! Destra e sinistra sono tali perché devono (o dovrebbero) riferirsi a un nucleo sociale, categorie, ceti -classi, una volta si sarebbe detto- così da esprimerne e tutelarne gli interessi in ogni sede, a cominciare da quelle istituzionali. Grosso modo e per non farla troppo lunga andando a ripescare definizioni di guru e intellettuali (a cominciare da Norberto Bobbio) del tempo che fu, essere di sinistra dovrebbe dire stare dalla parte dei settori deboli della società. Non oso citare gli operai, i nuovi espropriati dalle moderne tecnologie, i precari intellettuali, a ben vedere tutti proletari nel senso pieno che una volta si dava a questo termine, per non far venire l’orticaria agli ex compagni oggi impegnati nei vigneti, nelle segreterie, nelle Camere alte e basse, nei board delle multinazionali, nelle municipalizzate, a fare soldi, riscuotendo vitalizi o accumulando cariche.

UGUALI A CHI? Una volta, erano i tempi del cosidetto materialismo storico, si insegnava  in libri e saggi, e pure nelle scuole di partito, mitica Frattocchie compresa, che in una società, qualsiasi società, non tutti siamo uguali. E quelli come loro, gli uomini di sinistra, a cominciare dai comunisti, nella società dei ricchi e poveri, borghesi e capitalisti, dovevano anzitutto fare riferimento proprio a quella Classe, operai e contadini, proletari e sotto, i deboli appunto, e gli interessi di questa, la Classe di riferimento -spalleggiata dalla preziosa sponda di ceti e categorie alleate, se non inglobate nello stesso partito- dovevano tutelare piegando in suo favore tutto il resto.

SEMPRE A GALLA Dopo aver inneggiato al comunismo, allo stalinismo e alle degenerazioni peggiori consumatesi nel nome del marxismo-leninismo, dopo essere rimasti ancorati all’Idea quando già le normali armi del senso comune (politico) e della ragione avevano abbattuto da decenni tutti i muri ideologici dei settarismi filosovietici che c’erano da abbattere, compreso quello di Berlino che a Botteghe oscure si ostinavano ancora a mitizzare, dopo tutto questo e altro ancora e senza aver saputo trarre le dovute conseguenze magari facendosi da parte, anzi fondando e rifondando partiti e partitini per rimanere a tutti i costi  a galla, gli ex compagni apparecchiano adesso, anche con Napolitano, un’altra indigeribile pietanza per dare una prima sistemazione teorica a quello che anche i loro eredi ed epigoni confluiti nel Pd si apprestano a propinarci all’insegna della grande ammucchiata: il Partito della Nazione.

POVERI RICCHI Già, il Partito della Nazione, che si può e si deve fare, par di capire. Leggiamo Napolitano, ormai incapace di vedere nel corpo sociale qualsiasi differenza di interessi e classi, di scelte radicali (e ci mancherebbe) da fare per riscattare i deboli o l’altro che si vuole. Per farlo ci sarebbe anzitutto bisogno di un’analisi di ciò che sta all’origine del tutto e dell’abisso di diseguaglianze e ingiustizie che rischia di ingoiare le generazioni future: il sistema economico-produttivo che tante differenze sforna, con la sua incapacità  ad occupare, offrire lavoro e ricchezza da ridistribuire. In una parola, l’ultima versione del sistema capitalistico mondializzato che con la sua folle finanziarizzazione globalizzata e poco governata con spirito sta compromettendo tante possibilità di veder crescere l’economia reale, in modo di allargarne la base produttiva e le possibilità di collocare in modo soddisfacente individui e forza lavoro. Oltre a polarizzare in modo inaccettabile la ricchezza nelle mani di pochissimi e la fame nelle bocche di troppi.

FUORI LINEA Di  tutto questo in Napolitano non c’è praticamente traccia. Eppure l’intervista ha l’aria di volere consegnare alle masse incolte le linee-guida per la nuova fase del Pd. Cosa significa allora per l’ex leader “migliorista” del Pci essere oggi di sinistra?  “Che domanda”, risponde, occorrerebbe lo spazio di una enciclopedia per dirlo. Offre comunque qualche esempio: “Significa affrontare la problematica del crescere delle diseguaglianze, ricorrendo agli strumenti politico- intellettuali offerti dalla più avanzata cultura italiana e internazionale”. E cioè? “Penso alla ricca ricerca di Salvatore Veca, nientemeno, “riferita anche a quella di John Rawls, sulle teorie della giustizia, sulle ‘questioni di giustizia’. O penso al respiro storico-culturale con cui affrontare il tema delle migrazioni, esemplarmente suggerito da Massimo Livi Bacci e dall’Accademia dei Lincei”. Un nuovo Gramsci a quanto pare. “In generale”, spiega ancora, “un’ispirazione o identità della sinistra comporta oggi una visione alta -imperniata sul nesso Italia-Europa e sul nesso Europa-Mondo delle questioni cui urge dare una risposta”. Cioè, il nulla, fumo, tanto, pur di non andare al cuore del problema.

FAGIOLI INDIGESTI E qui viene a fagiolo la questione del partito-ammucchiata che Matteo Renzi sembra volerci ammannire.  E a cui bisogna dare, senza dirlo esplicitamente va da sé, una adeguata imbellettata. Con parole alte, consone alla statura del personaggio. Dice Napolitano: “Non voglio imbarcarmi in una discettazione sul partito della nazione. Voglio però citare una posizione che giudico interessante: è quella espressa da Peter Mandelson sulle cause della sconfitta del partito laburista guidato da Ed Miliband“. Secondo Mandelson, stretto collaboratore di Tony Blair e tra gli ispiratori del New Labour, “l’errore di Miliband è stato quello di caratterizzare il partito in ristretti termini di classe, di aver presentato il suo partito come ‘una metà della nazione in guerra contro l’altra’. E invece per guadagnare consensi e dunque vincere le elezioni e governare – che dovrebbe essere il compito naturale di ogni partito politico in un paese democratico – è essenziale parlare alla nazione“.

GRANDE AMMUCCHIATA E siamo al dunque: “Il punto di vista di una forza di sinistra o di centro-sinistra”, declama l’ex comunista-migliorista Napolitano, “non deve essere espressione degli interessi solo dei gruppi sociali di riferimento, magari interpretati in chiave corporativa, ma dell’interesse generale della nazione“. Appunto quello, pare di capire,  dell’insieme indistinto di un corpo sociale in cui scompaiono le radici e le cause delle differenze consentendo di teorizzare la Grande Ammucchiata. Delegando poi inevitabilmente la rappresentanza politica (avanguardia, si sarebbe detto una volta nel linguaggio rivoluzionario dei comunisti) dello  scolorito pachiderma a un partito trasversale, il Partito della Nazione appunto,  animato da esponenti della più svariata estrazione e provenienza, destra, sinistra centro poco importa, nella traduzione italica contemporanea ex forzisti, Ncd, An, Scelta civica, berlusconiani e pure finiani, casinisti, socialisti e palombari ciclisti. Il cui interesse e tratto dominante, una volta risolta la questione della leadership, non può essere per gran parte che quello della gestione consociativa del potere, la sistemazione dei ceti dirigenti e delle clientele che alimentano il consenso necessario lasciando inalterato il resto. Il tutto garantito da una nuova corrente di pensiero/potere: il renzismo-leninismo che, all’insegna del “prendere o lasciare” (vedere il caso di Enrico Letta ma anche quello di Ignazio Marino) non sembra proprio disposta a fare prigionieri. Anche a costo di calpestare prerogative e procedure della democrazia rappresentativa e diritti degli elettori.

PADRE E FIGLI Eccolo l’ultimo approdo di quel che resta della tradizione comunista italiana. L’unica sinistra secondo i comunisti medesimi meritevole un tempo di esistere e governare in quel campo. Una sinistra portatrice di una “diversità” genetica che rendeva tutti gli altri che in quell’area ruotavano, socialisti, socialdemocratici, psiuppini, demoproletari, indegni di occupare un qualsivoglia ruolo e spazio. Quel che resta di quel glorioso filone generato dalla scissione di Livorno e ora consegnatosi mani e piedi al Renzismo e al quale pare chiamato a fornire il primo rozzo, armamentario teorico. Non per rimuovere le cause delle disuguaglianze, analizzare nel profondo e riformare il sistema economico-sociale che le produce, ma per creare condizioni ed humus necessari a partorire il grasso Partito della Nazione. Il partito interclassista, trasversale, consociativo, trasformista, che lascia con un palmo di naso deboli e disoccupati, proletari e schiavizzati dalle nuove forme contrattuali  per mettere insieme da qui all’eternità i nuovi padroni e maggiordomi del Nazareno, i Renzi con gli Orfini, i Casini con Verdini, Alfano e Bondi (con signora al seguito, naturamente) con Finocchiaro e Boschi. E con un Grande Padre spirituale a benedire il parto e a fornire la prima veste cultural-politica per la strapotente, asfissiante creatura: Giorgio Napolitano, gloria migliorista del Pci.

 

 

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