Tre mesi per indicare una manciata di nomi. Ma niente: Forza Italia, Area Popolare, Conservatori e Riformisti e Gal non sono riusciti, da luglio, a indicare i propri senatori per la commissione d’inchiesta sulla tragedia del Moby Prince, avvenuta il 10 aprile 1991 a poche miglia al largo di Livorno (morirono in 140). Così ora il presidente Piero Grasso, primo sponsor della commissione già dai mesi successivi al suo insediamento a Palazzo Madama, è costretto a un ultimatum: i capigruppo Paolo Romani, Renato Schifani, Cinzia Bonfrisco e Mario Ferrara dovranno comunicare i propri commissari entro le 13 di domani, 29 ottobre, altrimenti li sceglierà lui stesso. D’altra parte l’istituzione dell’organismo era stato approvato all’unanimità a luglio dalla commissione Lavori pubblici del Senato e Grasso aveva già sollecitato tutti i capigruppo a designare i commissari il 3 agosto. Pd e Movimento Cinque Stelle, invece, hanno dato da tempo i propri nomi, ma la commissione per partire deve contare su 20 componenti.

Nel frattempo, però, nulla è successo e quindi il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime Loris Rispoli ha minacciato di entrare in sciopero della fame già dal primo novembre: “E’ una presa in giro” aveva detto in un’intervista a ilfatto.it. Così, dopo la lettera inviata ai 4 capigruppo, Grasso ha telefonato a Rispoli per spiegargli quale sarà il percorso di “accelerazione” per istituire la commissione. L’accelerazione dovrebbe far sì che già nella prossima settimana possa essere convocata la prima seduta e eletto il presidente della commissione (in lizza vari nomi del Pd, tra cui Felice Casson e Doris Lo Moro, entrambi ex magistrati).

“Si sblocca finalmente, grazie alla nostra insistenza e perseveranza, l’impasse” dice la senatrice dei Cinque Stelle Sara Paglini, firmataria della proposta di legge sulla commissione d’inchiesta e componente del comitato ristretto per un testo unificato – nei passaggi precedenti – insieme a Marco Filippi (Pd) e Alessia Petraglia (Sel). La Paglini era intervenuta di nuovo in Aula, durante i lavori dell’assemblea, per accelerare le operazioni di composizione della commissione. La consideriamo una prima vittoria – aggiunge ora la Paglini – Un primo passo verso quel risarcimento morale che i familiari delle vittime attendono da troppo tempo, fino ad oggi lasciati senza risposta dalle istituzioni”.

L’ultimatum di Grasso ha un doppio significato. Da una parte, infatti, emerge la contraddizione di una commissione d’inchiesta approvata all’unanimità che però non ha ancora l’elenco dei componenti perché alcuni partiti non sono riusciti a indicare i propri rappresentati. Dall’altra c’è una ragione “operativa”: la commissione d’inchiesta, infatti, come ha raccontato più volte ilfattoquotidiano.it, avrà una serie di paletti. Tra questi non solo un limite di budget, ma anche e soprattutto un limite di tempo: durerà due anni e sopravviverà solo in questa legislatura. E siccome il mandato dei senatori si conclude nel 2018, la commissione dovrà cominciare a lavorare il prima possibile, perché il 2016 è praticamente dopodomani.

La sciagura del Moby Prince avvenne il 10 aprile 1991 davanti al lungomare di Livorno. Il traghetto della Navarma, pochi minuti dopo essere uscito dal porto, si scontrò con una petroliera ancorata nella rada, la Agip Abruzzo, il cui armatore era la Snam. Morirono in 140 tra passeggeri diretti ad Olbia e membri dell’equipaggio. E’ stata la più grande tragedia della storia della marineria civile in tempo di pace e il più grave incidente sul lavoro avvenuto in Italia. Tuttavia la magistratura non ha mai individuato un responsabile (tranne il terzo ufficiale della petroliera, Valentino Rolla, poi dichiarato prescritto) e soprattutto non ha mai convinto i parenti delle vittime, primi tra tutti Loris Rispoli (che sulla nave perse la sorella Liana che lavorava come hostess) e Angelo e Luchino Chessa, i figli del comandante, che oltre al padre Ugo quella sera di 24 anni fa persero anche la madre Maria Giulia. Carenze nelle indagini, presunti depistaggi, ombre e sospetti hanno accompagnato la prima inchiesta, terminata con due sentenze in alcuni casi contraddittorie tra loro su vari elementi, come sulla presenza della nebbia la sera in cui avvenne l’impatto e soprattutto sulla posizione della petroliera nella rada di Livorno, cioè se fosse dentro o fuori il triangolo in cui è vietato l’ancoraggio. Il primo pm che indagò confessò al fatto.it che erano rimasti “tanti dubbi” e che “non si è mai arrivati alla verità”.

Una seconda inchiesta, aperta e chiusa dalla Procura di Livorno dal 2006 al 2010, terminò invece con una richiesta di archiviazione anche per via del fatto che molti dei reati contestabili erano prescritti. Ma le conclusioni dei magistrati, ancora una volta, non ha convinto le famiglie delle vittime che nel corso degli anni hanno continuato a lanciare appelli alla politica. Il lavoro di uno studio di ingegneria forense di Milano, coordinato da Gabriele Bardazza, ha fatto emergere diversi dubbi anche sull’inchiesta bis. Su quello dovrà lavorare la commissione d’inchiesta. Tra questi la presenza di due navi fantasma, le spiegazioni sulla nebbia che in realtà poteva essere – perizia agli atti – una nube di vapore per un guasto e il presunto conflitto d’interessi di un consulente nominato dalla Procura che aveva lavorato anche per Moby e Eni. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, però, assicurò che il conflitto d’interessi non c’era perché lo aveva assicurato lo stesso perito. 

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