Giorni fa sono entrato in un bar, ho ordinato un caffè, accanto a me è comparso un tizio che ha salutato il barista in modo amichevole, ostentando una confidenza maniacale, smaccata, gli ha chiesto: “Mi fai un cappuccillos?”. Mi sono voltato a guardare il tizio, e immediatamente mi sono chiesto: perché ha ordinato un cappuccillos anziché un più modesto cappuccino? Ho dato per scontato che in quel bar non venisse servita una variante ispanica del cappuccino, né che l’avventore fosse straniero e magari fosse incappato in un involontario difetto di pronuncia. Niente di tutto questo. L’avventore era romano, e il bar era uno di quei bar in cui il cappuccino si chiama cappuccino. Ciò nonostante, il tizio si è voltato e si è messo a sfogliare il giornale, ed è sembrato molto soddisfatto della sua richiesta, anzi, è sembrato molto soddisfatto del modo in cui aveva formulato quella richiesta, ondeggiando sulle spalle con un che di insolente, ignorando il cadavere ancora caldo della parola cappuccino.

Naturalmente all’interno del bar non è importato a nessuno che quell’uomo avesse appena compiuto un crimine di sciatteria. Il barista ha preparato il cappuccillos, io ho continuato a bere il mio caffè senza cadere nella tentazione della giustizia sommaria, e l’ordine matematico dell’universo è rimasto inalterato.  Poi, uscendo dal bar, ho riflettuto sul perché quell’uomo aveva voluto dare una connotazione esotica alla semplice ordinazione di un cappuccino, e la prima cosa che mi è venuta in mente è che la sua principale preoccupazione doveva essere stata quella di scovare un modo per sottolineare la propria condizione di totale disinvoltura. Per quanto mi riguarda, la disinvoltura è la piaga del secolo.

Achille Campanile diceva: “Ho sempre ammirato la disinvoltura dei cani che entrano in un salotto”. Oggi apparire informali, e quindi disinvolti, è la chiave che consente qualsiasi tipo di ascesa sociale: la superficialità consumista della società contro la lentezza contemplativa. Viviamo in una foresta di semplificazioni, ogni gergo è codificato da una sequela di espressioni preconfezionate. La telecronaca di una partita di calcio potrebbe essere la telecronaca di qualsiasi partita di calcio. A volte gli esiti sono esilaranti. Tempo fa guardavo una partita in televisione, all’Olimpico diluviava, il campo da gioco era ridotto a uno stagno, il telecronista a un certo punto ha detto: “Provano ad affondare per vie centrali”.

Seguo da tempo la raccolta di #paroleorrende lanciata su Twitter da Vincenzo Ostuni e Daniela Ranieri condividendo con loro l’orticaria che provocano certe espressioni della lingua contemporanea, espressioni – mi accorgo – che non sono semplici accessori della lingua, ma rappresentano ormai il tessuto stesso della lingua, tanto che forse bisognerebbe lanciare una contro-raccolta delle #paroledasalvare, ossia delle belle espressioni ancora in auge nel lessico popolare, esercizio – temo – assai più complicato.

Da parte mia provo ostilità verso certi automatismi gergali. Nel mondo delle recensioni letterarie, per esempio, ogni trama è “una trama a orologeria”, e quasi tutte le opere di ambito contemporaneo “ci restituiscono la complessità del presente”. Sui giornali le riforme sono spiegabili “in quattro punti”, i video “diventano virali”, e la battaglia è sempre “sul voto finale”. È la via fast alla lingua, il corrispettivo della carne premasticata, del mordi-e-fuggi, responsabile di obesità e diabeti mentali, di un’incurabile depressione culturale.

Per fare il pieno di parole orrende basta mettersi in ascolto del mondo, prestare orecchio alle conversazioni degli sconosciuti, il campionario si arricchirà di minuto in minuto. Ho fatto la prova di persona. Nell’ultima ora qualcuno intorno a me ha pronunciato i seguenti obbrobri: “Spidieffare” (estrarre testo da un file pdf); fare un po’ di “uacciuari” (civettare con qualcuno con leggerezza); “Per Enne motivi” (per un numero imprecisato di motivi); “Figlio de ndrocchia” (un tipo scaltro, un marpione); “Acapito aca?” (in romanesco  è l’espressione che indica sorpresa e disappunto, si usa quando si viene a conoscenza di qualcosa di inaspettato; analogo a un altro mostro linguistico: “apperò”); “A cipolla” (vestirsi a strati quando il clima è incerto); “Mi viene gente a cena” (obbrobrio sedimentato nella lingua dagli anni Settanta); “Attori” (riferito alle parti che stipulano un protocollo d’intesa).

Per finire, mi sono accorto che quando tra “i nostri politici” (altra espressione straziante, ovvero l’antipolitica che genera l’antilingua) qualcuno dice: “Gli italiani lo sanno”, io quella cosa non la so mai.

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