“WCKD è buono” ed è dappertutto. Ci eravamo lasciati così in Maze Runner – Il Labirinto (2014), con il manipolo di ragazzetti capitanati dal coraggioso centometrista e ficcanaso Thomas (Dylan O’Brien) fuggito dal temibile labirinto infestato da meccanici e famelici ragnacci giganti pronti ad uccidere. Sembrava finita lì, ma la serie The Maze Runner era solo ai nastri di partenza. Da giovedì 15 ottobre arriva anche in Italia il secondo titolo della saga ispirata ai romanzi “young-adult” di James Dashner: The Maze Runner – The Scorch Trial sempre per la regia ipercinetica di Wes Ball.

E anche se proprio all’ultimo istante del primo capitolo ci era capitato di piangere per la morte del paffuto Chuck, capiamo che non c’è spazio in assoluto per i sentimenti. Perché in Maze Runner, versione cinematografica, bisogna soltanto correre. Un moto in avanti che ricorda banalmente il disegno piramidale degli schemi dei videogiochi, ma anche una nuova dimensione drammaturgica seriale che fa dell’atto del superamento dello step il vero centro di senso dell’intera operazione “saga”. Dalla radura contornata da mura invalicabili e da un labirinto del primo episodio, ai primi squarci di ambiente postapocalittico (The Scorch Trial è stato girato nel New Mexico) composti da città distrutte, deserti e infine montagne rocciose. Allo stesso tempo il mistero attorno alla ragione per la quale i ragazzi della radura con a capo Thomas sono stati catapultati nel labirinto da un lato si svela in alcune sue parti (c’è un virus che trasforma le persone in zombie e i ragazzi sono gli “immuni”), dall’altro non fa ancora comprendere fin dove si espande l’ambigua organizzazione WCKD e cosa effettivamente vuole da Thomas e compagnia.

Così Maze Runner – The Scorch Trial butta a mare un po’ della zavorra adolescenziale del primo capitolo per diventare uno dei tanti adrenalinici e ipertecnologici mondi altri, ed adulti, che seguono ad un epidemia che quasi cancella l’uomo. Anche qui da un lato si perde la peculiarità di gioco avventuroso, stratificato persino sulle dinamiche gerarchiche modello Signore delle Mosche, del buon primo capitolo, per arrivare ad un sci-fi bombarolo di sufficiente livello nel secondo. In un solo anno di distanza a livello produttivo Thomas, come del resto Minho, Newt e Teresa, sono talmente cresciuti e sviluppati fisicamente che la loro fragilità identitaria de Il Labirinto si è come stinta e li ha resi scalpitanti american idol postpuberali già capaci di piccoli flirt – lo spoiler su chi bacia Thomas non lo facciamo. Il franchise della 20th Century Fox sembra andare a sfidare più da vicino i più maturi, in senso anagrafico mica poetico-stilistico-tecnico, Divergent o Hunger Games con una buona dose di cartucce da sparare già per l’atteso terzo capitolo, The Death Cure – dove si presume così a naso si parli di qualche vaccino risolutore – e chissà se per un quarto obbligatoriamente prequel per ricalcare la u-turn del romanziere Dashner già datata 2012.

Giova, infine, l’inserimento di qualche effettiva star che recita per più di due minuti come l’altmaniana Lili Taylor e gli spikeleeiani Giancarlo Esposito e Barry Pepper. The Maze Runner – Il Labirinto era costato 34 milioni di dollari e ne aveva incassati oltre 330, sfiorando i 32 milioni solo nel primo weekend in Usa. The Scorch Trial ha fatto 30 nel primo weekend e dopo nemmeno un mese di uscita in tre quarti delle sale occidentali ha già racimolato 240milioni di dollari.

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