“Credo che abbia fatto molte cose buone. Che abbia rotto meccanismi discutibili e incrostazioni corporative che indebolivano la città”. L’epitaffio sull’esperienza in Campidoglio – e forse anche della vita politica – di Ignazio Marino è firmato Matteo Orfini. Il presidente del Pd fotografa in campo lungo la parabola del sindaco di Roma, caduto per 19mila euro di spese fatte con la carta di credito del Comune su cui la Procura ha aperto un’indagine. Ma l’ex chirurgo non è caduto soltanto per la storia degli scontrini, che è stata soltanto il casus belli di una defenestrazione a lungo rimandata e la firma in calce al suo curriculum di politico, ruolo cui leggerezze tali non possono essere perdonate. La sua trincea, Marino, aveva cominciato a scavarsela fin dal primo giorno a Palazzo Senatorio: muovendosi come un elefante in una cristalleria, il “marziano” ha toccato fin dal principio piccoli e grandi equilibri a tutti i livelli – da Malagrotta alle municipalizzate, dal salario accessorio di vigili urbani e dipendenti comunali ai venditori ambulanti cacciati dal Centro – inimicandosi un ecosistema politico-amministrativo come quello romano, abituato a gestirsi le cose tra noantri.

Chiusa Malagrotta, fine del sistema Cerroni. E degli affari col Pd – La sinistra romana con Manlio Cerroni era andata d’accordo per 30 anni. Così, quando il 30 settembre 2013 Marino chiude Malagrotta, nei palazzi si diffondono i primi malumori. Il 9 gennaio il proprietario della discarica più grande d’Europa finisce ai domiciliari con l’accusa di associazione a delinquere e 21 tra politici, dirigenti e imprenditori finisce sul registro degli indagati, il palazzo trema e le strade di Roma iniziano a riempirsi di rifiuti. Il sindaco cambia due volte i vertici dell’Ama e, mentre i romani protestano e l’opposizione scatena il putiferio, proroga di 4 mesi l’apertura di due discariche della Colari e va alla carica sui netturbini: “Troppo assenteismo – attacca il 9 luglio 2014 – cadranno delle teste”. E il 13 rincara: “Su 8 mila dipendenti, circa 2 mila usufruiscono della legge 104, che dà la possibilità tre giorni al mese di assistere un familiare disabile e non andare al lavoro. E’ statisticamente difficile da capire”. La tensione è alta, ma le trattative sono intavolate, il 10 luglio Comune e azienda raggiungono un accordo per un piano straordinario di raccolta e il 5 agosto arriva l’annuncio: “L’emergenza è finita”, spiega il sindaco. Magicamente i cassonetti tornano a svuotarsi, i sacchetti spariscono dai marciapiedi. Perché? I netturbini avevano ricominciato a lavorare. “Abbiamo recuperato 152 operai ogni giorno – confermava Daniele Fortini, presidente e ad di Ama – sono 6.000 ore in più alla settimana di lavoro e si vede. Siamo passati dal 19% di assenteismo a gennaio a sotto il 15%“.

Mafia Capitale, la Metro C e il “vizio” di portare carte in Procura – Ai rapporti tra Marino e il Pd non ha giovato la frequentazione del sindaco con il portone più importante di piazzale Clodio. Due esempi. Il 10 dicembre 2014, 8 giorni dopo la deflagrazione della bomba di Mafia Capitale, il sindaco varcava la soglia della Procura per portare a Giuseppe Pignatone documenti dell’amministrazione considerati “utili” all’indagine. Una decisione per la quale nessuno al Nazareno avrà stappato bottiglie. Giusto 2 mesi prima, il 9 ottobre, il sindaco era già andato a trovare il procuratore capo per denunciare i ritardi nell’apertura del cantiere della Metro C, pozzo senza fondo di soldi pubblici cui da anni attingono a piene mani alcune dei maggiori potentati imprenditoriali capitolini e nazionali – l’appalto fu vinto nel 2006 da un raggruppamento composto da Astaldi, Vianini lavori gruppo Caltagirone, consorzio Cooperative costruzioni e Ansaldo Finmeccanica – dopo che la commissione sicurezza del Ministero dei Trasporti non aveva dato l’autorizzazione per l’apertura della prima tratta della metro, prevista per l’11 ottobre. Dopo che i suoi costi sono lievitati passando da 3 a 3,7 miliardi. Una concatenazione infinita di ritardi che, il 17 luglio, avevano già portato lo stesso sindaco a decapitare i vertici di Roma Metropolitane, scelti da Gianni Alemanno, ritenuti “inaffidabili” e inadeguati a realizzare l’opera.

Municipalizzate: dismissioni, tagli ai cda e presidenti non romani – Le municipalizzate, altro nervo scoperto, causa di una continua frizione tra il modus operandi di Marino e il sistema di potere capitolino. Il campanello d’allarme scatta dalla prima giunta: il 27 giugno 2013 Marino annuncia “un atto di indirizzo sulla governance delle municipalizzate”, terreno di caccia ai voti di politici di ogni colore e fonte inesauribile di appalti per consorterie di ogni sorta. Il 24 luglio la giunta approva una delibera che definisce i criteri per le nomine: servirà un avviso pubblico internazionale chiuso a chi ha ricoperto nei precedenti due anni incarichi istituzionali. E’ il primo di una lunga serie di segnali. Finite le logiche spartitorie? Certo che no, ma il metodo del sindaco non lascia tranquilli: chiede l’amministratore unico per tutte le società e cambia i vertici di quelle più importanti, spesso nominando presidenti e ad non romani, quindi in teoria esterni alle logiche di potere capitoline. Un esempio: il 23 luglio 2013 al vertice dell’Atac arriva un milanese. Danilo Broggi diventa ad con il compito di guidare l’azienda di trasporti pubblici martoriata da Parentopoli (850 assunzioni tra amici e parenti di esponenti del centrodestra, dirigenti e sindacalisti, più altri 1.000 nell’Ama) e da un maxi buco di bilancio di 130 milioni. Il 5 luglio 2014 il Comune annuncia il piano: via 25 partecipate per recuperare 440 milioni. E il 25 marzo 2015 arriva la delibera che prevede la vendita delle quote di giganti come Assicurazioni di Roma, Acea Ato2, Aeroporti di Roma Spa, Centrale del Latte Spa. Tutte poltrone in teoria perse alla politica romana.

Via gli ambulanti dal centro, guerra alla famiglia Tredicine – “Vi sembra normale che chi vende le caldarroste a Roma paghi come tassa di occupazione di suolo pubblico 3 euro al giorno, quando un sacchetto di caldarroste costa 4 euro?”, domandava Marino il 21 marzo 2014 in Commissione Bilancio alla camera, dove di discuteva il “Salva Roma”. Gli aumenti annunciati (da 3 a 30 euro al giorno), erano stati annacquati in aula, ma alla fine la stangatina era arrivata. Il Bilancio 2014, approvato in consiglio nella notte del 31 luglio, prevede che per i camion bar la tassa aumenti di 3,5 volte, di 3 volte quella imposta ai venditori di souvenir. Sei giorni più tardi, in diretta su Radio Anch’io Marino annunciava di voler “liberare le piazze dai venditori abusivi, eliminare l’invasione illogica dei tavoli”. Nuovo annuncio, nuovo nemico. A settembre il tavolo tecnico tra Campidoglio e Ministero dichiara incompatibile la collocazione di 43 urtisti (i venditori di souvenir), 70 camion bar e 11 fiorai in tutta l’area archeologica centrale, dai Fori al Circo Massimo. A Roma gli ambulanti sono un potentato, anche in aula Giulio Cesare. Perché il vicepresidente dell’assemblea capitolina si chiama Giordano Tredicine, il rampollo della famiglia più potente della destra romana, nipote del mitico Donato, fondatore della dinastia dei caldarrostai di Roma e dell’impero dei camion bar: nel 2012 occupava oltre 40 dei 68 posti disponibili nel centro storico e controllava attraverso parenti e famiglie amiche centinaia di postazioni in tutta Roma. E finito in carcere il 4 giugno nella seconda tornata di arresti di Mafia Capitale.

“Giustificare le indennità”, dipendenti comunali in guerra – Le prime avvisaglie di tempesta con i 24mila dipendenti del Campidoglio erano arrivate nella primavera del 2014, l’11 aprile, quando una relazione del Ministero delle Finanze relativa al periodo 2009-2013 contestava l’erogazione a pioggia delle indennità non legate a premialità o produttività, bocciando la gestione del personale dell’era Alemanno. “Non intendiamo realizzare l’equilibrio di bilancio riducendo le risorse spettanti al personale”, spiegava il sindaco il 24 aprile, chiedendo però ai lavoratori di giustificare gli indennizzi lavorando più ore o svolgendo mansioni aggiuntive. Alcune indennità finivano poi nel mirino: ad esempio, quella la “manutenzione uniforme” ovvero per il lavaggio della divisa garantita ai vigili urbani; cui il sindaco contestava anche il turno notturno con inizio alle ore 16 anche d’estate e l’indennità di “effettiva presenza in servizio”, ovvero un premio in denaro per il semplice fatto di andare a lavorare. Ma nell’elenco ci sono anche il bonus per i colloqui con i genitori o le affissioni degli avvisi in bacheca garantito alle maestre; o quella che premia i tecnici amministrativi per il rientro in ufficio al pomeriggio, obbligo già previsto dal contratto. Oppure l’indennità “per l’attività di sportello al pubblico” o ancora quella “oraria pomeridiana”. Risultato: i dipendenti scendono ripetutamente in piazza e mettono nel mirino il sindaco.

La guerra dei vigili urbani contro la turnazione e la Panda rossa – In testa alle categorie più agguerrite, c’è quella dei pizzardoni. La scintilla nell’ottobre del 2013 era stata la nomina di Oreste Liporace a comandante della Polizia Municipale. Colonnello dell’Arma con tre lauree, l’uomo di Marino aveva tre peccati originali: non avere 5 anni di esperienza da dirigente nella P.A. (cosa che ha fatto sfumare la sua nomina) ma anche non essere romano e non appartenere al corpo. “Macchie” che si porta addosso anche il nuovo comandante, Raffaele Clemente, già capo della sala operativa della Questura. La nomina di un altro “esterno” il 10 ottobre viene accolta dai 6.000 agenti della Capitale con la minaccia di uno sciopero per il 18 ottobre (giorno del corteo dei Cobas e della partita Roma-Napoli) e settimane di agitazione a macchia di leopardo. Una tensione continua che dura da mesi e registra un nuovo picco agli inizi del novembre 2014, quando Clemente enuncia il principio della “discontinuità territoriale”: dopo 5 anni nello stesso gruppo per i funzionari e 7 per gli agenti, il personale sarà trasferito in altro municipio. L’obiettivo: recidere i legami costruiti nel tempo con il territorio possono causare distorsioni. Solo il 21 ottobre, un vigile era stato arrestato mentre intascava 1.500 euro per “ammorbidire” una contravvenzione in un bar di Montesacro. L’annuncio di Clemente era arrivato il 5 novembre: due giorni dopo scoppiava lo scandalo delle multe alla Panda rossa.

Unioni civili durante il Sinodo sulla famiglia, l’ira del Vaticano nacque lì – La fine di tutto ebbe inizio sabato 18 ottobre 2014. Quel giorno splendeva il sole sul Palazzo Senatorio, mentre nella sala della Protomoteca il sindaco procedeva alla trascrizione delle nozze di 16 coppie omosessuali sposate all’estero. Fuori, ai piedi della scalinata che porta al Campidoglio, qualche decina di manifestanti targati Ncd e Forza Italia protestavano rumorosamente contro la decisione, contro la quale si scagliavano il prefetto Giuseppe Pecoraro (“Annullerò le trascrizioni”), il ministro dell’Interno Angelino Alfano (“Il sindaco firma autografi”) e l’altra sponda del Tevere: “Una tale arbitraria presunzione messa in scena proprio a Roma in questi giorni non è accettabile”, tuonava la Cei, adirata perché proprio in “questi giorni” in Vaticano si celebrava il Sinodo straordinario sulla famiglia. La “scomunica” inflittagli da Papa Francesco il 28 settembre sul volo di ritorno dagli States (“Io non ho invitato il sindaco Marino, chiaro? Ho chiesto agli organizzatori e neanche loro lo hanno invitato”, ha risposto Bergoglio a un cronista che gli domandava dell’origine del viaggio del marziano a Philadelphia) partiva quindi da molto lontano. In quel momento, però, è diventato tutto chiaro: la fine di Marino era arrivata.

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