Di lui tutti conoscono il volto da premio Oscar, la faccia da star del cinema, i capelli spettinati, la barba dimenticata, e quella vestaglia scura che indossava quand’era Jeffrey ‘Drugo’ Lebowski. Ma Jeff Bridges non è mai stato solo un attore. Dipinge, compone, canta. E come racconta, per la prima volta, la mostra intitolata “Jeff Bridges Photographs: Lebowski and other big shots”, che ha inaugurato sabato 3 ottobre a Bologna, alla galleria Ono arte, è anche un fotografo. Nella prima esposizione monografica d’Europa dedicata a uno tra i più versatili volti di Hollywood, infatti, ci sono gli scatti che Bridges ha catturato nel corso di una carriera, di set in set, tra un ciack e un copione. Immagini immortalate con una Widelux che svelano l’altro volto del cinema americano, quello in cui gli attori si preparano a trasformarsi in personaggi, in cui ci si scambia una battuta tra una ripresa e l’altra, e c’è sempre un costume da sistemare, prima che la cinepresa venga messa in funzione.

“Le immagini che Bridges scatta nei backstage di film come The Fabulous Baker Boy, Texasville, The Fisher King, American Heart, e ancora The Mirror has two faces, True Grit e The Big Lebowski – spiegano gli organizzatori della mostra bolognese – raccontano la vera essenza di cosa significhi creare un film, e definirle solo intime sarebbe riduttivo. Il suo lavoro infatti ha una qualità poetica tale da far risultare queste fotografie quasi un’autobiografia, un diario quotidiano e a tratti malinconico”.

In mostra alla Ono, dal 3 ottobre al 15 novembre, infatti, non ci sono le fotografie che Bridges ha scattato sul set. Tra le 60 immagini in esposizione, infatti, c’è anche la serie intitolata Comoedia/Tragoedia, che sfrutta la caratteristica possibilità della doppia esposizione della Wideluxe per immortalare nella stessa istantanea attori come Martin Landau, John Turturro, Cuba Gooding Jr., Philip Seymour Hoffman o Kevin Spacey, che interpretano la maschera comica e quella tragica, nel nome della tradizione teatrale più classica.

Intimità e spettacolo, ironia e introspezione. Una narrazione versatile quanto versatile è Bridges attore, nato in una famiglia legata da generazioni al tessuto industriale del cinema americano – suo padre Lloyd fu un attore caratterista attivo dagli anni ’40 in oltre 150 film, e il fratello Beau è anch’esso celebre attore e regista – e appartenente a quella dinastia di divi che hanno formato la base di Hollywood. Partecipando a un’innumerevole serie di film e recitando nei ruoli più diversi. Classe 1949, Bridges iniziò la sua carriera cinematografica all’inizio degli anni ’70, e oltre al celebre personaggio del film cult girato dai fratelli Coen nel 1998, infatti, è stato anche Duane Jackson nell’Ultimo spettacolo, Caribù in Una calibro 20 per lo specialista, e il Presidente Jackson Evans in The Contender, che gli sono valsi tre nomination agli Oscar come “miglior attore non protagonista”. Poi ha interpretato Starman, Reuben J. ‘Rooster’ Cogburn ne Il Grinta, e con il ruolo di Bad Blake in Crazy Heart ha conquistato il Golden Globe come miglior attore in un film drammatico, e anche l’Oscar.

Al collo, sempre la sua Widelux. La imbracciò per la prima volta al liceo e poi al college, ma la sua vita da attore per qualche tempo gli fece dimenticare la sua passione per lo scatto. Furono i panni di Jack Prescott, il protagonista della saga King Kong, che lui indossò nel 1976, a ricordargli che amava immortalare.

“La Widelux è legata alla concezione che Bridges ha dell’arte: come lui stesso afferma infatti, da un lato le caratteristiche della macchina permettono di catturare il maggior numero di informazioni in un singolo scatto e di narrare contemporaneamente più storie, creando delle immagini che sono in un inter-regno tra la fotografia di scena (o di posa) e il film. Dall’altro invece, l’assenza di un focus manuale e un obiettivo poco attendibile la rendono una macchina piuttosto arbitraria e poco precisa, ma per questo più umana e onesta. Sia come attore che come fotografo Bridges vuole liberare la scena dalla sua presenza per lasciare spazio alla narrazione”.

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