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La nave l’ho presa spesso, per raggiungere luoghi di vacanza. Fin da quando ero un bambino. Appena si arriva al porto ci si mette in colonna, dietro le altre auto. Spegniamo il motore ed usciamo dalla macchina. Non è un granché l’odore della salsedine e del carburante che si sente nell’aria, ma sono entusiasta perché comincia la vacanza. Mi appoggio al cofano e ascolto le onde che si infrangono contro il molo, quando la nave si sta avvicinando.

I bambini giocano a pallone sul piazzale antistante, il bar a pochi passi è pieno di turisti che comprano qualcosa da bere o da mangiare. La brezza della sera rende più piacevole l’attesa prima dell’imbarco. L’atmosfera è allegra. Preferiamo viaggiare di notte, dormire in cabina, o su uno sdraio sul ponte, e svegliarci la mattina presto. C’è un po’ di foschia che piano piano si dissolve mentre la nave sta per toccare terra. Questo è il mio ricordo dei viaggi per mare.

Poi ci sono i loro di viaggi in barca. Di coloro che tutti i giorni fuggono disperati dal loro Paese e che posso a malapena immaginarmi. Sono migranti. Fuggono dalle loro terre e forse non ci torneranno più. Comprano viaggi di sola andata che costano il doppio di un biglietto aereo direzione Miami o New York. Ma cercano un Paese dove rifugiarsi.

Dopo aver percorso chilometri a piedi, sacco in spalla, giungono in Turchia per imbarcarsi su un gommone o, come i corpi che affioravano due giorni fa al largo dell’isola greca di Farmakonisi, su barconi di fortuna. Su natanti che non hanno cabine per riposare, spazi in cui sedersi o servizi igienici. Gli unici posti al caldo per le attraversate di notte e con il mare molto mosso sono nella stiva. Là dentro l’odore della nafta è più intenso e ti entra nei polmoni. Ti intossica. I bambini sono rintanati lì perché almeno è più riparato. La stiva diventerà la loro tomba.

Poi ci sono quelli che proseguono il viaggio nascosti nei camion frigo. Se l’autista (stessa pasta dello scafista), pagato profumatamente, sente odore di polizia, spegne il motore e li abbandona lasciandoli soffocare e marcire lì dentro. Sono alcune delle conseguenze di una guerra civile.

Quando la scorsa settimana ho condiviso sulla mia pagina di facebook la fotografia del piccolo Aylan, diventata il simbolo della tragedia dei migranti, c’è chi è stato d’accordo e chi no.
Quando l’ho pubblicata un’amica mi ha scritto privatamente: “Cazzo Davide…apro facebook e trovo il tuo post di quel bimbo in mare…Non ce la posso fare. Un pugno in piena faccia fa meno male”. Le ho chiesto scusa per aver urtato la sua sensibilità e lei mi ha risposto: “Guardo Amedeo (suo figlio) e penso – e se un giorno fossimo noi quelli costretti a scappare?”.

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