Nel buio c’è luce. È quanto si è dimostrato con un esperimento che la comunità scientifica internazionale riteneva impossibile. Di recente il team di ricercatori coordinati dottor Mete Atature, del dipartimento di fisica, laboratorio Cavendish, dell’Università di Cambridge è riuscito ad ottenere una nuova forma di luce “spremendo” una singola particella di luce (un fotone) riproducendo una particolare condizione della fisica quantistica nella quale l’incertezza è ridotta al minimo.

Un esempio calzante, che fa intuire il concetto, è quello già spiegato in passato il dottor Atature: se si osserva una tavola che pare liscia, sappiamo che se la guardiamo ingrandita ci saranno di sicuro delle imperfezioni, ovvero non sarà del tutto liscia; per analogia in un ambiente che sembra buio, quindi privo di luce, allo stesso modo si è dimostrato che esistono dei fotoni, cioè delle quantità elementari di luce (quanti). L’esistenza di questi fotoni nel profondo buio è stata dimostrata da radiazioni elettromagnetiche emanate dal buio (captate all’esterno con particolari rilevatori di onde elettromagnetiche) che di sicuro sono state emesse da fotoni.

Questo il significato dell’esperimento fatto a Cambridge e qui si aprono le porte a tecnologie molto sofisticate grazie alle quali, in un futuro non troppo lontano, apparecchiature elettroniche costruite ad hoc saranno predisposte a cercare dei segnali (anche se debolissimi) che prima non si sapeva esistessero. Grazie a queste tracce si potrà capire come funziona l’Universo e come si sono prodotte le onde gravitazionali generate dal Big bang o dall’esplosione delle stelle.

L’“Eureka” è giunto dopo più di trent’anni di tentativi vani. Era dal 1981 che i laboratori di tutto il mondo provavano l’esperimento e, avendo alla base soltanto l’abc delle formule matematiche, l’avevano bollato come un’impresa senza speranza. Sarà un caso ma la scoperta è arrivata quest’anno, il 2015, che l’Unesco ha riconosciuto come “l’Anno internazionale della luce e delle tecnologie basate sulla luce”.

Una coincidenza che rende ancora più felice il dottor Atature mentre spiega a ilfattoquotidiano.it come funziona il suo esperimento: “Abbiamo fatto brillare un laser su un punto quantico che è un atomo artificiale (o super) di circa 10-20 nanometri e funziona proprio come uno normale ma reagisce più forte al laser (pensatelo come a un atomo migliorato). Questo punto quantico emette singoli fotoni, quindi abbiamo raccolto questi fotoni e abbiamo misurato con i nostri rivelatori la quantità di rumore quantico (fluttuazioni) che hanno. La meccanica quantistica dice che il rumore quantico è sempre lì, anche quando non si dispone di fotoni (nel vuoto) e questo imposta il valore più basso di rumore che ci si può aspettare di vedere. Si tratta del concetto di ‘squeezed’ light (luce spremuta): la quantità di rumore nella luce viene schiacciata sotto vuoto. Questo si ottiene solo in regime di laser molto debole che quasi non genera alcun fotone, quindi è stato un esperimento molto difficile, che prima non poteva essere fatto con atomi naturali”.

Tradotto: sebbene sembri lapalissiano che in assenza di luce vi sia una condizione di buio, la fisica quantistica invece sostiene che anche quando la luce non c’è, ci sono comunque delle fluttuazioni elettromagnetiche. “Si tratta di concetti contro-intuitivi. Parliamo di fluttuazioni di vuoto che sono responsabili di particelle virtuali che vengono create e annientate in modo estremamente veloce e continuo.

Le fluttuazioni di energia portano ad un efficace livello di rumore elettromagnetico di fondo”, spiega il dottor Atature. Ma la vera chiave di volta per il buon esito dell’esperimento è stato il focalizzarsi su un singolo fotone, così come prosegue a spiegare l’esperto di Cambridge: “Mentre lo ‘squeezing’ come concetto può portare a dispositivi di misurazione interferometriche di rumore più basso, come il Ligo, (Laser interferometer gravitational-wave observatory: osservatorio interferometro laser delle onde gravitazionali, ndr), questo è utile solo come applicazione in un regime di potenza molto elevata e molti scienziati ci stanno lavorando da anni; il nostro esperimento invece è davvero sull’altra estremità dello spettro e aggiunge alla nostra comprensione come si comporta la luce nel caso limite di un singolo fotone”.

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