Lunedì 7 settembre la nave da sbarco “Saratov” contrassegnata dalla sigla 150 sullo scafo, frutto del “progetto Alligator” (secondo la nomenclatura Nato), varata nel 1966 e aggregata alla Flotta russa del Mar Nero, transita per il Bosforo. Sulla tolda, coperti da teloni mimetici, decine di blindati, probabilmente quelli a otto ruote della serie BTR. Mercoledì la “Saratov” attracca al porto di Tartus, in Siria, dove era arrivata qualche giorno prima la “Nikolai Filtchenkov”, altra nave da trasporto della classe Alligator che era passata alla fine d’agosto davanti a Istanbul. Tutto alla luce del sole.

Non è la prima volta. Quest’anno, per esempio, la “Saratov” aveva già fatto rotta verso la Siria a metà gennaio. Da mesi il web registra testimonianze – foto, filmati, selfie – di militari russi in attività sul fronte siriano, a fianco delle forze di Damasco. Un video ripreso con telefonino mostra droni, Mig 31 e caccia bombardieri Sukhoi Su-34 di ultima generazione che attaccano postazioni dell’Isis. L’impegno dei cosiddetti “specialisti militari” e degli “addestratori” russi sarebbe ben diverso dal ruolo ammesso sinora dalle autorità di Mosca: solo in queste ultime ore si comincia a dire che le operazioni in territorio siriano potrebbero evolversi in modo più determinante. Tuttavia, a livello diplomatico, prevale una certa reticenza da parte della Russia. Putin come al solito gonfia i muscoli, sfida l’Occidente – più per uso interno che esterno. Ma non vuole precludersi altre possibilità: a giorni andrà all’Onu, i suoi stanno tentando di convincere la Casa Bianca ad organizzargli un incontro riservato con Obama. Il presidente russo ribadisce la volontà di Mosca di difendere Bashar Al Assad perché, secondo il Cremlino, sarebbe l’unico logico baluardo contro l’avanzata del Califfato.

Dunque, schierarsi con Assad significa combattere i ribelli. Come l’Esercito della Conquista che sta avanzando verso Latakia (mirano a conquistare la base aerea di Abu al Duhur). Come Al Nusra e Ahrar al Shana, formazioni islamiche, rivali tra di loro e ostili all’Isis, che invece hanno potuto godere dell’aiuto di francesi e britannici. Assad è in grande affanno e Mosca rischia di perdere il controllo della costa alawita (da Latakia a Tartus, ndr). Per questo sta correndo ai ripari. Per questo Mosca sta approntando un sistema di fortificazioni sia attorno al porto di Tartus che a nord, dove l’aeroporto di Latakia accoglie i giganteschi Tupolev che sbarcano “aiuti umanitari” (ed armi, secondo il modello Donbass…). Da intervento di sussistenza a intervento attivo. La miccia che potrebbe far esplodere la dinamitica Siria e trasformarla in uno scontro Est-Ovest, non solo guerra contro il Califfato.

Il rebus è di difficile soluzione. Mosca pensa di sfruttare le divisioni europee e i tentennamenti Usa. Gli occidentali, a parole, vorrebbero scalzare Assad, e convincere i russi a far fronte comune contro l’Isis, e su questo – sempre a parole – c’è accordo, persino con Teheran. Mosca sostiene che sarebbe un errore abbattere il regime di Assad: “Non ripetete ciò che avete fatto in Libia: dove regna caos e dove i fondamentalisti stanno guadagnando terreno”. In realtà, teme di dover fare i conti con il “dopo” e di perdere i diritti di scalo a Tartus, e il canale privilegiato con Damasco.

La Russia in Siria è ben vista dall’Iran ed Hezbollah, che temono la destabilizzazione della regione a favore delle forze Nato. Putin vorrebbe essere il Grande Mediatore. Rischia invece di finire per essere il killer della Siria. Sottolinea l’assurdità di combattere sia Assad che il Califfato, e favorire i ribelli che in fondo sono animati dalle stesse ideologie e sono motivati da obiettivi antioccidentali. Dice che è prioritario combattere il fondamentalismo islamico, ha dalla sua il Papa perché afferma di voler difendere i valori della cristianità. Il leader russo, inoltre, è abbastanza accorto da non urtare la suscettibilità turca, sfruttando il recente avvicinamento con Erdogan. Non vuole perciò alimentare inutili frizioni favorendo la variabile curda, che pure è una componente fondamentale (ma non fondamentalista) del puzzle siriano-iracheno: Ankara vedrebbe di buon grado l’allargamento della coalizione anti-Isis finalizzata alla stabilizzazione delle aree ai suoi confini… la quadratura del cerchio.

La nuova portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha minimizzato la situazione, parlando di aiuti professionali, gli specialisti inviati da Mosca hanno il compito di spiegare l’uso dei materiali bellici inviati a supporto delle forze militari siriane, ossia armi leggere, lanciagranate, mezzi blindati BTR-82A, camion Kamaz. Insomma, da sempre Mosca fornisce di aiuti militari l’alleato siriano, “stiamo onorando i contratti stipulati cinque e sei anni fa”. Però ci sono testimonianze di alcuni giornalisti inglesi (per esempio, del Times) che hanno parlato anche di carri armati russi in azione, dunque di un impegno che va oltre le forniture e l’assistenza tecnica.

Testimonianze confermate dalla Nato e da Washington per i quali l’incremento della presenza russa pare ricalcare in pieno la linea adottata nel Donbass, quando gli “aiuti umanitari” celavano invio di armamenti pesanti e di truppe. In Siria, i “consiglieri”, gli “istruttori” e gli “specialisti” russi hanno piuttosto l’aspetto delle reclute. Basta cliccare su Vkontakte, il social network russo più popolare: dove ci si può imbattere in foto e relativa geolocalizzazione di marines che erano di stanza a Sebastopoli e adesso si ritrovano sbattuti al fronte, quello “liquido” e micidiale della Siria… Ma Mosca nega. Dice che questo scenario è “prematuro”.

Prematuro, il maggior coinvolgimento russo sui molteplici fronti della Siria, come vorrebbe farci credere Putin? Il sito ucraino uapress.info ha appena pubblicato che a Sebastopoli sarebbe arrivato un cargo della Marina russa, con salme di militari. Analisti indipendenti russi evocano lo spettro dell’Afganistan. Con l’aggravante che le forze russe, in deficit tecnologico, sarebbero impreparate ad affrontare la guerriglia del Califfato. Eppure, a differenza della disgraziata campagna afgana, la presenza militare russa in Siria è di antica data. Fu nel 1971 che Hafez Al Assad, padre dell’attuale dittatore Bashar, concesse all’Unione Sovietica il diritto di sfruttare come scalo il porto di Tartus, le cui infrastrutture erano e continuano ad essere abbastanza limitate, a cominciare dal fondale che non è adatto agli attracchi di grosse navi, più che altro serve come scalo per rifornimenti e riparazioni navali. Dopo la caduta dell’Urss, Damasco prorogò alla Russia gli stessi diritti d’uso. Allora, come oggi, per Mosca avere una base navale nel Mediterraneo era di fondamentale importanza strategica: più che a livello militare, a livello politico.

Presenza russa che negli ultimi dodici mesi si è tuttavia intensificata: sia per numero di attracchi, che per via aerea. Sino all’impiego dei marines a sostegno dell’esercito di Assad. Il ponte aereo all’aeroporto di Latakia, la costruzione di casermette per almeno mille uomini, l’installazione di sofisticate apparecchiature per comunicazioni satellitari ha allarmato la Nato e Washington, che si sono sentite “sorpassate”. Come sempre, il pokerista Putin ha forzato il piatto. Sta all’Occidente non farlo piangere.

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