I soprannomi uno se li deve meritare. E Klaudio Ndoja, cestista albanese classe 1985 che ha trovato il successo in Italia dopo una fuga rocambolesca in gommone dal suo paese, il suo se l’è meritato tutto. I compagni di squadra lo chiamano Il Gladiatore per la determinazione e la rabbia agonistica che mette in ogni partita e su ogni pallone.

Klaudio – quest’anno in forza alla Pallacanestro Mantovana in A2, ma capace di conquistare nel 2011, da capitano, una storica promozione in A1 con Brindisi – è uno che non si scoraggia mai, non perde mai la calma. Non perché è un supereroe, ma perché la vita gli ha fatto capire che deve tenersi stretto quel che ha. La sua storia – da poco nero su bianco nel libro di Michele Pettene “La morte è certa, la vita no. Storia di Klaudio Ndoja” (Imprimatur) – inizia fra le mille difficoltà di un paese, l’Albania, travolto da un colpo di stato nel 1991 e dalla guerra civile del 1997. Il basket esplode come una passione inseguita da Klaudio con tenacia, allenandosi fra i proiettili che sibilavano vicino al canestro improvvisato dal padre Paulin fra le carcasse di auto della sua officina di Scutari.

Klaudio ha talento, inizia a giocare nella squadra di pallacanestro della sua città e si distingue, ma l’Albania sembra un paese senza futuro. “Era tutto distrutto – racconta a ilfattoquotidiano.it – ed era sempre più difficile pensare di rimanere in Albania. Era diventato pericoloso anche uscire di casa. Un giorno mia sorella Alba è stata colpita da un proiettile mentre passeggiava vicino a casa. Per fortuna se l’è cavata. Ma quell’episodio ci fece prendere la decisione di andarcene da Scutari”. Siamo nel 1998 e, in quel periodo, erano molte le imbarcazioni cariche di cittadini albanesi che arrivavano, specie di notte, sulle coste pugliesi. Una notte di febbraio anche Klaudio e la sua famiglia decidono di prenderne una.

Vendono tutto quello che hanno per pagarsi il viaggio: “Gli scafisti – spiega l’ala di 201 cm che ha giocato anche con Danilo Gallinari nelle giovanili del Casalpusterlengo – ci hanno chiesto un milione e mezzo di lire a testa per la traversata. Per capire che tipo di investimento rappresentasse per noi, basta pensare che, nel 1998, lo stipendio medio in Albania era di 170mila lire al mese per un operaio come mio padre”. La traversata della speranza inizia di notte da Valona, con il mare mosso, stipati come sardine su una piccola imbarcazione, sul collo il fiato di persone che non riesci nemmeno a vedere in faccia e sopra la testa gli elicotteri dell’esercito albanese che sorvolano il mare, puntano i fari sulle barche in fuga e minacciano di sparare se non fossero tornate indietro.

Per fortuna non succede e Klaudio arriva in Salento. Da lì inizia la peregrinazione, sua e della famiglia, lungo lo Stivale. “Avevamo 500mila lire in tutto e non conoscevamo nessuno. Io ero un invisibile e lo sono stato per parecchi anni”. Prima l’Emilia, poi la Lombardia i continui cambi di casa: “In quel periodo – ricorda – era come non esistere: niente scuola, niente amici, niente di niente. Andavo al campetto a giocare, perché ho la pallacanestro nel sangue. Ma sempre con il terrore di essere scoperto e rimpatriato”.

Ma Klaudio resiste e la vita inizia a premiarlo. Il padre trova lavoro come meccanico, la madre Katina riesce a trovare un’occupazione in una lavanderia. La clandestinità è “sconfitta” e Ndoja muove i primi passi sui parquet italiani. Prima a Desio, nella squadra dell’oratorio, e due anni dopo a Casalpusterlengo. Da qui, Ndoja inizia il suo personale giro d’Italia che lo porterà a Capo D’Orlando nel 2007-08: la prima, tanto sognata, stagione in Serie A. Un vero ‘miracolo’ se si ripensa a quel ragazzino appena tredicenne in fuga su uno scafo verso l’Italia.

“Ho deciso di scrivere questo libro – racconta – per dare speranza ai milioni di migranti che in questi anni stanno scappando dai loro paesi per cercare una vita migliore. Io sono stato uno di loro e ce l’ho fatta. Io, come loro, sono stato un invisibile ho dovuto combattere contro razzismo e pregiudizi. Ma ce l’ho fatta. La mia salvezza si chiama basket, ma per altri può avere nomi diversi. L’importante è non mollare, credere nel proprio talento e non cercare scorciatoie o vie sbagliate”.

“All’inizio – scrive Gianmarco Pozzecco, che ha giocato con Ndoja a Capo d’Orlando, nella prefazione del libro – non conoscevamo la sua storia e lo pren­devamo in giro con battute sugli albanesi, sui gommo­ni, su qualsiasi cosa scaturisse dalle nostri menti idiote. Poi, quando cominciammo a conoscere le sue vi­cende, per me fu come vedersi chiudere un cerchio. Improvvisamente capivo molto meglio Klaudio. Capivo perché in mezzo al campo nei momenti più difficili era quello che si cagava meno in mano, anche se quello era il suo primo anno da professionista. Capivo la sua testardaggine negli allenamenti, il suo non accontentarsi mai. Capivo perché aveva due palle grosse così”.

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