“I servizi di intelligence con sede nell’Ue hanno svolto attività che ledono i diritti umani” e “la complicità attiva di alcuni Stati membri dell’Ue nell’ambito della sorveglianza di massa dei cittadini e dello spionaggio di leader politici da parte dell’Agenzia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, come rivelato da Edward Snowden” ha “causato gravi danni alla credibilità della politica dell’Ue in materia di diritti umani e” ha “minato la fiducia globale nei benefici derivanti dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.

Inizia con un atto d’accusa durissimo la Relazione intitolata “Diritti umani e tecnologia: impatto dei sistemi di sorveglianza e di individuazione delle intrusioni sui diritti umani nei paesi terzi”, approvata ieri, in prima lettura, dal Parlamento europeo.

E il Parlamento di Bruxelles, nella Relazione, “deplora” il fatto che “le misure di sicurezza, comprese le misure antiterrorismo, siano sempre più spesso utilizzate come pretesto per violare il diritto alla riservatezza e per contrastare le legittime attività dei difensori dei diritti umani, dei giornalisti e degli attivisti politici” ribadendo “la propria ferma convinzione che la sicurezza nazionale non possa mai giustificare programmi di sorveglianza di massa, segreti o non mirati”.

Nella Relazione la recente vicenda della Hacking Team, la società tutta italiana, regina dello spionaggio telematico globale, deflagrata nei mesi scorsi non viene mai citata espressamente ma il suo spettro corre tra le righe e rafforza le critiche e le preoccupazioni dei Parlamentari europei che, non certo per caso, “deplorano” il fatto “che alcune tecnologie e servizi dell’informazione e della comunicazione prodotti all’interno dell’Ue siano venduti e possano essere utilizzati da privati, imprese e autorità nei paesi terzi con l’intento specifico di violare i diritti umani attraverso la censura, la sorveglianza di massa, attività di disturbo, intercettazioni, controllo, rilevamento e localizzazione dei cittadini e delle loro attività sulle reti telefoniche (mobili) e su Internet”.

E, poi, rendendo ancor più chiaro il riferimento alla vicenda della società milanese, il Parlamento aggiunge che “deplora la cooperazione attiva di alcune imprese europee, come pure di imprese internazionali, che commerciano tecnologie a duplice uso con potenziali effetti negativi sui diritti umani e che operano nell’Ue, con governi che violano i diritti umani”.

Quello che emerge dalla Relazione è uno scenario noto – almeno agli addetti ai lavori – ormai da anni e già rimbalzato, sfortunatamente con frequenza crescente, sui media di tutto il mondo, decine di volte.

Questa volta, però, a metterlo nero su bianco, senza alcuna esitazione, ambiguità e reticenza è il Parlamento europeo, in un documento approvato all’esito di un dibattito intenso e con una maggioranza modesta, specie in relazione alla gravità della situazione che vi è tratteggiata.

E nella relazione non ci si limita a puntare l’indice contro l’operato di alcuni Stati e delle loro agenzie di intelligence ma si indicano anche ricette e possibili soluzioni.

In questa prospettiva, innanzitutto, il Parlamento europeo “invita la Commissione e il Consiglio a difendere attivamente l’Internet aperto, le procedure decisionali multilaterali, la neutralità della rete, le libertà digitali e le garanzie in materia di protezione dei dati nei paesi terzi tramite i forum sulla governance di Internet”, ricordando che “gli sviluppi tecnologici e l’accesso a un Internet aperto svolgono un ruolo sempre più importante nel consentire e garantire l’esercizio e il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, esercitando un effetto positivo grazie all’estensione della portata della libertà di espressione, dell’accesso all’informazione, del diritto alla riservatezza e della libertà di riunione e di associazione in tutto il mondo” e che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione “hanno svolto un ruolo essenziale nell’aiutare gli individui a organizzare i movimenti sociali e le proteste in vari paesi, in particolare sotto regimi autoritari”.

Il riferimento, anche in questo caso, non esplicito ma immediatamente riconoscibile è ai fatti della primavera araba ed ai cittadini dell’Africa settentrionale autoconvocatisi, proprio via internet, nelle piazze delle loro città per riprendersi quella libertà e quei diritti umani che regimi autoritari avevano loro sottratto da tempo.

E il Parlamento europeo non ha dubbi nell’indicare la strada alla Commissione ed al Consiglio dell’Unione, invitando entrambi “a promuovere strumenti che consentono l’utilizzo anonimo e/o pseudonimo di Internet”, contestando “la visione unilaterale secondo cui tali strumenti avrebbero come unica funzione quella di consentire le attività criminali, e non di dare maggiore potere agli attivisti dei diritti umani all’interno e all’esterno dell’Ue”.

Nessun dubbio, dunque, per il Parlamento europeo che cifratura delle comunicazioni elettroniche e anonimato non solo non debbano essere vietati ma, al contrario, vadano promossi dai singoli Stati e ne vada semplificato l’accesso da parte di tutti i cittadini.

Grande rilievo, nella Relazione, viene attribuito ai fornitori dei servizi online ed agli operatori di telecomunicazione attraverso i quali i cittadini europei accedono a Internet e la usano.

Le raccomandazioni del Parlamento al riguardo sono rivolte tanto alle imprese che operano nel settore quanto agli Stati.

Alle prime il Parlamento chiede di progettare piattaforme e servizi secondo la logica della “privacy by design” ovvero in modo che gli utenti possano usare piattaforme e servizi, proteggendo la loro privacy in modo semplice ed intuitivo.

Quanto ai secondi – ovvero ai Governi dei Paesi membri – il Parlamento li “mette in guardia dalla privatizzazione delle attività di contrasto attraverso le aziende Internet e i provider di Internet”.

Ma il principio fondamentale attorno al quale si snodano le sedici pagine della relazione appena approvata dal Parlamento dell’Unione è riassunto, dallo stesso Parlamento in una manciata di caratteri: “La sicurezza digitale e la libertà digitale sono entrambe fondamentali e l’una non può sostituire l’altra ma dovrebbero rafforzarsi a vicenda”.

Parole sante, universalmente condivisibili eppure sempre più di frequente tradite, in una dimensione nella quale, in ossequio al principio machiavellico secondo il quale il fine giustifica i mezzi, la difesa della sicurezza interna ed internazionale sembra, ormai, sistematicamente giustificare piccoli e grandi episodi di violazione massiccia della privacy dei cittadini europei.

Ed è difficile leggere la Relazione del Parlamento europeo senza riconoscervi l’affermazione di molti degli stessi principi individuati nella Dichiarazione dei diritti in Internet approvata dall’apposita Commissione istituita presso il nostro Parlamento: l’accesso a internet come diritto dell’uomo ed il diritto di ogni persona a comunicare online anche in forma anonima ed utilizzando strumenti, quali la crittografia, che siano in grado di garantire la segretezza delle proprie opinioni nei confronti di tutti, Governi ed agenzie di intelligence inclusi, salvo, naturalmente, specifiche eccezioni.

Troppo presto, però, per plaudire ad un’Unione europea che, in un sussulto d’orgoglio, sembra rinsavire, fare autocritica rispetto alla deriva orwelliana alla quale si è largamente abbandonata negli ultimi anni e segnare una strada per il ritorno alle sue origini nelle quali tanta importanza ha avuto il riconoscimento dei diritti dell’uomo.

Per farlo, infatti, bisognerà attendere prima che la Relazione – per ora approvata solo in prima lettura – sia fatta definitivamente propria dal Parlamento europeo e, poi, soprattutto che gli Stati ne facciano proprio il contenuto, considerato che come ogni altra Relazione, di per sé può restare un insieme di belle parole, improduttive di ogni conseguenza pratica.

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