Migrant crisis
Yuri Kozyrev per Time|NoorImages Profughi siriani fermati dalla polizia al confine tra Ungheria e Serbia, il 29 agosto 2015

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Accampati in stazione, malamente arrampicati a un finestrino di treno, impilati uno sull’altro nei vagoni, sui gommoni, accalcati contro un filo spinato. Disperati, esausti, spaventati. Morti. Calais, Lampedusa, Kos, Budapest. Ho visto infinite foto, in queste ore.

Di quelle che pensi: foto di un momento di storia.

Foto per i libri che un giorno racconteranno questi anni. Gli scafisti. I muri.
L’Europa.

Foto che colpiscono: ma nessuna quanto questa di Yuri Kozyrev. Questi tre uomini con lo sguardo basso, in silenzio. Preoccupati. E anche mortificati, come padri, incapaci di offrire la protezione, le risposte, che le tre bambine, in rosa, ignare, l’elastico tra i capelli, sembrano cercare stringendoglisi intorno, lì spiaggiati in mezzo a un campo, fragili, spersi, incerti – questi tre uomini dallo sguardo spento, dimesso: atono: lo sguardo di chi ha imparato che non può chiedere niente alla vita. E’ stata scattata qui in Ungheria il 29 agosto, a Roszke. A sud. Al confine con la Serbia. E poi lo sguardo del bambino a sinistra. Il bambino con la maglietta a righe. Uguale a quello dell’adulto che lo tiene sulle spalle, altrettanto fragile, sperso, incerto, la stessa espressione: ma rivolta verso un futuro che non gli è consentito di toccare. Di raggiungere. Verso una vita a cui non capisce perché non può chiedere niente. Tre uomini e cinque bambini: questa foto mi colpisce per questo. Perché qui i siriani, gli afghani, gli eritrei, i nigeriani, non sono una massa indistinta. E non sono disperati, poveri, affamati: invadenti. Minacciosi. Sono tanti, sì, sono famiglie intere, occupano tutta l’inquadratura: ma la foto ha spazio, ha aria. Ha l’erba dietro. Ci sono dei singoli, qui, ci sono tre uomini e cinque bambini, non ci sono dei numeri, uno addosso all’altro, sudati, sudici, esausti. Non è una foto da libro, questa: è una foto da album di famiglia. Una foto come quella che hanno tanti di noi. In bianco e nero, un po’ sbiadita, con la sua cornice d’argento in mezzo a quelle di un matrimonio – è la foto del giorno in cui arrivarono in Ungheria: come la foto del giorno in cui un nostro zio, un nostro bisnonno arrivò in Belgio, negli Stati Uniti. In Argentina.
Non è la foto di un momento di storia, questa, ma di vita.

Ed è la foto, soprattutto, di un momento sospeso. Di attesa. Un momento aperto. Sono siriani, sono stati appena fermati dalla polizia. E forse finiranno in un centro di detenzione, e saranno rispediti indietro. O forse no. Forse scavalcheranno un filo spinato e fuggiranno. Di nuovo – è la foto di un momento in cui tutto è ancora possibile. Perché poi io vengo dall’Italia dei caporali: degli africani schiavi nei campi di pomodoro. Delle intercettazioni in cui la mafia definisce i profughi più redditizi della droga. Ma c’è anche un’altra Europa. Quella che non finisce mai sui giornali. L’Italia di Gabriele Del Grande, che ha travestito dei migranti da sposi perché non fossero fermati alla frontiera, la Turchia di Fethullah Uzumcuoglu e Esra Polat, il cui pranzo di nozze è stato un pranzo per 4mila siriani. Chi diventeremo? L’Ungheria che sistema bottiglie d’acqua lungo la strada verso Vienna, o l’Ungheria che costruisce muri, e spende 3,2 milioni di euro, più di quanto stanziato per l’accoglienza, per un sondaggio su migranti e terrorismo? La Grecia che si abbronza accanto ai cadaveri in spiaggia, o quella che aggiunge un posto a tavola? Chi sceglieremo di essere? Quelli che vogliono solo i profughi cristiani, i profughi perbene, quelli in fuga dalle guerre, ma non tutti gli altri, quelli in cerca semplicemente di una vita migliore? Quelli che chiedono a me giornalista di essere politically correct, e di distinguere, di non scrivere migranti, di scrivere profughi, senza realizzare che io per prima sono una migrante, una che ha lasciato l’Italia in cerca di un lavoro? Semplicemente, di una vita migliore? Chi diventeremo?

Quelli capaci di dare solo quando hanno qualcosa in più, solo il superfluo, una camicia sdrucita, una vecchia giacca fuori moda, o quelli capaci di condividere – quelli che capiscono la differenza tra la solidarietà e la giustizia?

Ha due orizzonti, questa foto. Non uno. La direzione in cui guarda il bambino, e la direzione del sole. Guardala bene. Sono tre uomini in circolo, c’è una quarta persona, in questa foto, in questo momento sospeso – e qui sta lo sconfinato talento di Yuri Kozyrev. Il quarto, in questa foto, quello in primo piano, in questo momento in cui tutto è ancora possibile: sei tu.

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